Palomar – Italo Calvino

Incipit Palomar – Italo Calvino

Incipit Palomar

Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda. Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci vuole un temperamento adatto, uno stato d’animo adatto e un concorso di circostanze esterne adatto: e per quanto il signor Palomar non abbia nulla contro la contemplazione in linea di principio, tuttavia nessuna di quelle tre condizioni si verifica per lui. Infine non sono «le onde» che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso.

Incipit tratto da:
Titolo: Palomar
Autore: Italo Calvino
Casa editrice: Einaudi
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Palomar - Italo Calvino

Quarta di copertina / Trama

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Chi è il signor Palomar che questo libro insegue lungo gli itinerari delle sue giornate? Il nome richiama alla mente un potente telescopio, ma l’attenzione di questo personaggio pare si posi solo sulle cose che gli capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana, scrutate nei minimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione.
Le esperienze di Palomar consistono nel concentrarsi ogni volta su un fenomeno isolato, come se non esistesse altra cosa al mondo e non ci fosse né un prima né un poi. Senza questa messa a fuoco preliminare nessuna forma di conoscenza gli sembra possibile, ma l’operazione all’atto pratico risulta ogni volta meno semplice di quel che si poteva credere. L’oggettività e l’immobilità dell’osservazione si trasformano in racconto, peripezia, coinvolgimento della propria persona. Più Palomar circoscrive il campo dell’esperienza, più esso si moltiplica al proprio interno aprendo prospettive vertiginose, come se in ogni punto fosse contenuto l’infinito.
Uomo taciturno, forse perché ha vissuto troppo a lungo in un’atmosfera inquinata dal cattivo uso della parola, Palomar intercetta segnali fuori d’ogni codice, intreccia dialoghi muti, tenta di costruirsi una morale che gli consenta di restare zitto il più a lungo possibile. Ma potrà mai sfuggire all’universo del linguaggio che pervade tutto il dentro e tutto il fuori di se stesso? Forse è per rintracciare il filo del discorso che scorre là dove le parole tacciono, che egli tende l’orecchio al silenzio degli spazi infiniti o al fischio degli uccelli, e cerca di decifrare l’alfabeto delle onde marine o delle erbe d’un prato.
(Ed. Einaudi; Nuovi Coralli)

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Le città invisibili – Italo Calvino

Incipit Le città invisibili – Italo Calvino

Incipit Le città invisibili

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Incipit tratto da:
Titolo: Le città invisibili
Autore: Italo Calvino
Casa editrice: Einaudi
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Le città invisibili - Italo Calvino

Quarta di copertina / Trama

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«Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie»: così comincia un resoconto di viaggi attraverso città che non trovano posto in nessun atlante. All’estraniamento geografico s’accompagna quello storico: non si sa a quale passato o presente o futuro appartengano queste città che si chiamano ognuna con un nome di donna. Ad apertura di libro, gli aromi che ci raggiungono sono quelli d’un oriente favoloso da «Livre des merveilles» o da «Mille e una notte», ma a poco a poco il repertorio dei segni cambia e ci si ritrova in mezzo alla megalopoli contemporanea che si va estendendo a coprire il pianeta. Se le città del sogno continuano a proiettare le loro ombre sullo schermo della nostra immaginazione, eccole diventare filiformi, assottigliarsi fino all’invisibile.
Come le compilazione geografiche medievali, anche queste notizie sul mondo che un Gran Kan melanconico riceve da un Marco Polo visionario tendono ad assumere la fissità suggestiva d’un catalogo d’emblemi. Ma anche qui, da un capitolo all’altro, – poemetto in prosa o apologo o onirigramma – si può tracciare una rotta, rintracciare il senso d’un percorso, d’un viaggio. Forse dell’unico viaggio ancora possibile: quello che si svolge all’interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città, a farne il nostro elemento, a soffrirle.
Con Le città invisibili Italo Calvino, ha scritto il suo libro più appartato, ma forse anche più meditato e sfaccettato. Un libro che propone più domande che risposte, che procede discutendo se stesso e interrogandosi, che si lascia percorrere in direzioni divergenti e su strati sovrapposti, che si costruisce in una forma elaborata e compiuta ma che ogni lettore può scomporre e ricomporre seguendo il filo delle sue ragioni e dei suoi umori.
(Ed. Einaudi; Prima edizione)

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Ultimo viene il corvo – Italo Calvino

Incipit Ultimo viene il corvo – Italo Calvino

Incipit Ultimo viene il corvo

La corrente era una rete di increspature leggere e trasparenti, con in mezzo l’acqua che andava. Ogni tanto c’era come un battere d’ali d’argento a fior d’acqua: il lampeggiare del dorso di una trota che riaffondava subito a zig-zag.
-C’è pieno di trote, – disse uno degli uomini.
Se buttiamo dentro una bomba vengono tutte a galla a pancia all’aria, – disse l’altro; si levò una bomba dalla cintura e cominciò a svitare il fondello.
(Ultimo viene il corvo)

Incipit tratto da:
Titolo: Ultimo viene il corvo
Autore: Italo Calvino
Casa editrice: Einaudi
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Ultimo viene il corvo - Italo Calvino

Quarta di copertina / Trama

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Ultimo viene il corvo (dal titolo d’una delle due più tipiche short stories) è stato il primo volume di racconti di Italo Calvino, che comprende trenta brevi narrazioni scritte in massima parte tra il 1945 e il 1948, in cui dominano le avventure della guerriglia, la picaresca baraonda del dopoguerra, i boschi e le scogliere della Riviera.
Ripubblicandolo oggi, diamo una scelta dei giudizi in cui la critica accolse questo libro:*

ENRICO FALQUI, «Il Tempo», Roma 10 gennaio 1950:
…Si comincia con l’allegria apparizione di un rospo e si finisce con un vendicativo tripudio di pesci. Nel mezzo troneggia il re corvo, e con l’ombra delle sue ali avvolge e incupisce quasi tutti i racconti in un’aria di finimondo. Sicché di continuo la realtà circostante è sollevata sopra un piano da «racconto straordinario».

GENO PAMPALONI, «ALMANACCO ITALIANO 1950», Firenze:
…Testimonianza lirica di un’avventura di guerra vissuta da una generazione che ne ha visto soprattutto l’aspetto di freddo gioco, di abile calcolo di cieca fortuna, è il libro di un giovane tra i meglio dotati della narrativa italiana che alterna racconti di pura e magica fantasia e racconti partigiani; dove tuttavia anche la guerra diviene motivo di lucida fiaba, viva e distante, come tutte le fiabe. Ed è appunto questo il dono (e il pericolo) del giovane Calvino.

GIUSEPPE DE ROBERTIS, «Tempo», Milano, 31 dicembre 1949:
…Calvino è ligure, s’è detto: e conosce la sua terra al pari di quel vecchio contrabbandieri, che «conosceva la frontiera come il fornello della sua pipa». Si dà il caso (ma non è un caso) che tutte le volte che situa un racconta all’aria aperta, sotto quel cielo, sempre i suoi modi acquistano un moto diverso, s’accendono d’una luce.

EMILIO CECCHI, «L’Europeo», Milano 10 maggio 1952:
… Si restava perplessi, dovendo ogni momento saltare dal buono al pessimo. E sembrava difficile ammettere che fossero d’una stessa penna l’avventura del partigiano e della spia nella serale, nebbiosa boscaglia di Andato al comando, e le dozzinale comicità del Furto in pasticceria; il tocco leggero di Un pomeriggio, Adamo (sciupato, purtroppo verso la fine), o di Un bastimento carico di granchi; e le grossolane caricature di Dollari, vecchie mondane.

ANNA BANTI, «Paragone», Firenze, aprile 1952:
…Fiabe nordiche, radicate nella terra del monte e del sottobosco e brulicante di presenze, tanto più fantastiche quanto più umili. Un pomeriggio, Adamo e Il bosco degli animali sono invenzioni che arrivano al limite della tradizionale vicenda a incastro, a ritornello narrativo, accordato sul ritmo della classica leggenda. Altri racconti come Il giardino incantato, Desiderio di novembre, Si dorme come i cani,mescolano, su un dato di fatto allontanato poeticamente, il patetico al grottesco: e la «moralità» che ne risulta, se pure il fatto è nuovo, sembra vecchia di secoli.

PIETRO CITATI, «Il punto», 7 febbraio 1959:
… Nei migliori racconti di questi anni (Un pomeriggio, Adamo, Un bastimento carico di granchi, Ultimo viene il corvo)… ancora colpisce la nettezza, la crudeltà, la rapidità inventiva del segno con il quale è registrato il reale, subito accolto da una mente agile, moderna e limpidissima. Nemmeno per un istante la ragione abbandona il controllo della realtà anche dove sembra più ricca e fantasiosa di umori e di avventure. Hemingway è diventato razionalista. il giovane Pin, del Sentiero, e il ragazzotto montanaro di Ultimo viene il corvo, della mira infallibile, che uccide con la medesima sicurezza pernici, ghiandaie, trote di fiume e soldati tedeschi, sono continuamente soccorsi da uno scrittore che esalta, come loro, la dote infallibile e crudele della precisione.
(Ed. Einaudi; I Coralli 1969)

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