La rete di protezione – Andrea Camilleri

La sveglia si misi a sonare di malo.

Incipit La rete di protezione

La sveglia si misi a sonare di malo.
Montalbano, ancora con l’occhi chiusi, stinnì ‘na mano verso il commodino e, tastianno, circò d’astutarla scantannosi che la rumorata arrisbigliassc a Livia che gli dormiva allato.
Ma le sò dita ncontraro un bicchieri che prima s’arrovisciò e po’ cadì ‘n terra.
Santiò. E subito sintì a Livia che arridacchiava. Si girò verso di lei.
«Ti ha svegliato la…?».
«No, lo ero da un pezzo».
«Davvero? E che facevi?».
«Cosa volevi che facessi? Aspettavo la luce del giorno e ti guardavo».
Montalbano pinsò che la sò testa, taliata di darrè, doviva essiri un paisaggio monotono.
«Lo sai che negli ultimi tempi mentre dormi talvolta ti capita di fischiettare?» spiò Livia.
A ‘sta rivelazioni, Montalbano, va’ a sapiri pirchì, s’irritò.
«Come faccio a saperlo se dormo? E poi sii più precisa: fischietto canzonette, opere liriche o cosa?».
«Calma, non ti sarai offeso, spero! Mi spiego meglio: certe volte emetti una specie di fischio».
«Col naso?».
«Non lo so».
«La prossima volta stacci attenta se fischio col naso o con la bocca e poi me lo dici».
«Ma fa differenza?».
«Sì, grandissima. Mi ricordo di avere letto qualcosa su un tale che aveva un fischio al naso che poi si rivelò un sintomo letale».

Incipit tratto da:
Titolo: La rete di protezione
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio

Libri di Andrea Camilleri

Copertina di La rete di protezione di Andrea Camilleri

Quarta di copertina / Trama

Una quotidianità sventatamente rapinosa, da fiera o luna park, sconcia Vigàta. Il villaggio è diventato il set di una fiction prodotta da una televisione svedese. Per falsare il paesaggio urbano e riportarlo indietro, fino agli anni Cinquanta, i tecnici si sono ispirati ai filmini amatoriali recuperati dalle soffitte. La mascherata cinematografica prevede di coinvolgere persino il commissariato, messo a rischio di subire l’oltraggio di un’insegna che lo dichiara «Salone d’abballo». Un’eccitazione pruriginosa monta attorno alle attrici svedesi e minaccia gli equilibri coniugali. Durante il ricevimento per il gemellaggio tra Vigàta e la baltica Kalmar arriva anche il finger food. Montalbano ribolle d’insofferenza; gli appare «tutto fàvuso». Temperamentoso com’è, cerca luoghi solitari. E tiene testa alla situazione. Dalla polvere di scartoffie dimenticate sono emersi, durante la ricerca delle domestiche pellicole d’epoca, sei filmini datati che, per sei anni di seguito, sempre nello stesso giorno e nello stesso mese, riprendono con ossessione il biancore ottuso di un muro. Montalbano è sfidato a leggere dentro quello spazio vuoto e rituale la trama, il giallo che si dà e si cancella: angosciosamente schivo ed enigmatico; forse intollerabile. Diversamente peritosa è l’altra inchiesta che, attraverso un episodio di bullismo misteriosamente complicato da una incursione armata a scuola, porta Montalbano a misurarsi generosamente (lui non più giovane) con l’intensità sagace e luminosa di adolescenti che socializzano attraverso skype; e, con lo slancio fiducioso di nuovi argonauti, affidano la loro fragile tenerezza all’avventura della rete.
Fra argute intemperanze e astuzie varie, Montalbano riafferma le sue qualità rabdomantiche che lo fanno archeologo di trame sepolte e di esistenze nascoste, oltre che sottile e lucido analista di quella «matassa ‘ntricata che è l’anima dell’omo in quanto omo». Irritato dalla volgarità geometrica e aggressiva del falso, si prodiga per risolvere due casi delicatissimi collocati in quella plaga morale, labile e sfumata, che non rende mai del tutto colpevoli o del tutto innocenti ed esige indagini riguardose ed emozionalmente partecipi: tra «protezione» e verità rivelata (ovvero scoperta e di nuovo velata, per non renderla insopportabile o sconvenientemente perniciosa). Non stupisce che Montalbano, in questo grande romanzo dell’introspezione, e del confronto pensoso con il disagio, si dichiari lettore e ammiratore della commedia di Jean Giraudoux, La guerra di Troia non si farà; e citi la battuta con la quale Ulisse si congeda da Ettore, ricordando le rispettive mogli per rendere intimamente credibile la solidarietà data affinché la guerra non ci sia: non è questione di semplice «noblesse», di generica nobiltà d’animo, dice; e tira fuori la carta segreta: «Andromaca ha lo stesso battito di ciglia di Penelope».
Salvatore Silvano Nigro
(Ed. Sellerio; La memoria)

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La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta – Andrea Camilleri

Incipit La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta

Il fatto di sangue che rapprisintò l’accomenzo di ’sta storia capitò a novicento chilometri e passa da Vigàta e pricisamenti a Roma, capitali del Regno d’Italia.
Per essiri ancora cchiù pricisi, il fatto di sangue avvinni al centro della cità, nella vicinanza della chiazza del Pantheon, dintra a ’na squallita cammaruzza di un albirguzzo a ure, chiamato Rebecchino, indove che, il dù di marzo del milli e novicento e dudici, un tinenti di cavallaria che faciva la bella vita, ed era assà accanosciuto per le sò prodizze, il baroni Paternò, pugnalò a morti, ’n seguito a ’n’azzuffatina furibonna, alla sò amanti che lo voliva abbannunari per sempri doppo dù annate d’amori trubbolento, passionevoli e dispirato, a ti voglio e non ti voglio, a ora ti lasso e ora ti piglio.
’Na facenna accussì, per quanto un dilitto passionali potissi essiri un muccuneddro prilibato per la curiosità della genti, si sarebbi potuta concludiri bastevolmenti presto con una facciata di cronaca nei jornali romani. ’Nveci, appena che della fìmmina ammazzata si vinniro ad accanosciri nomi e cognomi, la notizia ’ngigantì di colpo, finenno supra alle primi pagini di tutti i jornali taliàni, dall’Alpi a Capo Passaro.
Pirchì la morta malamenti era nentidimeno che la billissima contissa Giulia Trigona di Sant’Elia, maritata, matre di dù figli, non sulo appartenenti all’alta nobiltà, ma soprattutto prima dama di cumpagnia nella corti di Sò Maistà la Rigina Elena.
Lo scannalo fu tanto e tali che arrischiò d’allordari l’ermellino ’mmacolato della stissa sovrana.
E scatinò non sulo chiacchiari e filame d’ogni generi ’ntorno a quello che succidiva a corti, ma macari portò ligna al foco della mai finuta guerra tra monarchici e repubblicani.

Incipit tratto da:
Titolo: La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio

Libri di Andrea Camilleri

Copertina di La cappella di famiglia e altre storie di Vigata di Andrea Camilleri

Quarta di copertina / Trama

La cronaca contorta e pazza di Vigàta è uno spinaio di furfanterie, sgangheratezze, deliramenti, e intrichi d’amore: un intreccio di balordaggini pubbliche e di magnifiche stolidezze private. Nel villaggio, l’innocenza è spesso un candore temerario, un’allucinazione; e l’onestà è il capolavoro di falsari della morale e del buonsenso caritativo. Lo stesso crimine è un refuso dell’intelligenza, una morbida beffa. E la tristezza nuda di un cimitero si presta agli esercizi di un petrarchismo peloso versato nel corteggiamento di una Lauretta in abiti vedovili e alla resa dei conti tra parenti. Il camposanto diventa una gremita e agitata piazza d’armi e d’amori. Ci si mette anche il caso, che porta a rovescio ciò che si vorrebbe fosse il dritto. Le apparenze ingannano. E la realtà contempla situazioni che proliferano. Gli amori clandestini fanno sì che si formino collezioni di famiglie. La strampalatezza eccitabile è una corrente elettrica incontrollata: accende reazioni a catena, contagi come da «epidemia»; assurdità ossimoriche del tipo: «Un morto si reca all’obitorio ma cade strada facendo». Un dono di natura è capace di distorcere un’intera vita, e trasformare l’eletto in una «macchina» digerente, priva di «cuore», di «cervello», di funzioni sessuali.
L’arco cronologico è lungo. Va dal 1862 al 1950, dopo avere attraversato l’aria viziata di stupidità e dissennatezza del ventennio nero. Gli otto racconti, o «storie» vigatesi, fanno libro. Si sostengono a vicenda. E sono unificati dal comune assoggettamento al regime della voce poderosa del narratore, che risuona dentro la scrittura. Presentano tutti un umorismo a lenta combustione, che non dirompe se non fuori dalle pagine, nelle reazioni dei lettori. Camilleri surriscalda le scene con accortezza, per liberare alla fine volatili delizie perfettamente godibili, estremamente divertenti. Raccoglie (nei racconti intitolati Lo stivale di Garibaldi e La rettitudine fatta persona) l’eredità del Boccaccio, grande coreografo di processioni dietro reliquie che sacre non sono; e gran fabbro della «santità» blasfema di ser Ciappelletto. E se l’improbabile santità del personaggio di Camilleri non produrrà miracoli com’era accaduto con la «devozione» di «san Ciappelletto», un «miracolo» letterario operò di sicuro la «reliquia» di Garibaldi: «lo stivale insanguinato del Generalissimo». Alle onoranze dedicate allo stivale, alla processione, presero parte due giovani che ebbero così modo di affiatarsi e di promettersi. Si chiamavano Caterina e Stefano. Si sposarono. Dal loro matrimonio nacque Luigi Pirandello.
Salvatore Silvano Nigro
(Ed. Sellerio; La Memoria)

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L’altro capo del filo – Andrea Camilleri

Si nni stavano assittati nel balconcino di Boccadasse, mutangheri, a godirisi la friscura della sirata.

Incipit L’altro capo del filo

Si nni stavano assittati nel balconcino di Boccadasse, mutangheri, a godirisi la friscura della sirata.
Livia era stata tutto il jorno d’umori malo, le capitava sempre accussì quanno Montalbano era ’n partenza per tornari a Vigàta.
Tutto ’nzemmula lei, che era scàvusa, dissi:
«Mi vai a prendere le pantofole? Ho freddo ai piedi. Si vede che comincio a invecchiare».
Il commissario la taliò ’mparpagliato.
«Perché mi guardi così?».
«Tu cominci ad invecchiare dai piedi?».
«Perché, è proibito?».
«No, ma pensavo che per primo cominciasse a invecchiare qualche altro organo»

Incipit tratto da:
Titolo: L’altro capo del filo
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio

Libri di Andrea Camilleri

Copertina di L'altro capo del filo di Andrea Camilleri

Quarta di copertina / Trama

Una pagina tira l’altra. Eppure la lettura non può che scorrere con lentezza. C’è troppo dolore, c’è troppa disperazione, nel paesaggio di realtà che si va ad attraversare. Il mare è diventato una enorme fossa comune, il teatro acquatile di una immane tragedia di naufraghi: il quadrante acheronteo di violenze, lo specchio deforme attraversato dai fantasmi di quanti hanno sperato nella salvezza della fuga, sebbene pagata con la spoliazione e con gli abusi, con l’urlo raggelato delle madri e il pianto muto dei bambini che non sanno come decifrare l’orrore che si è disegnato nei loro occhi. Con quanta velocità è concesso di leggere la lentezza della sacra rappresentazione dell’esodo di una umanità straziata, tradita dalla storia e offesa dalle politiche del sospetto e dell’egoismo? A Vigàta, Montalbano è impegnato nella gestione degli sbarchi, nei soccorsi ai migranti, nello smascheramento degli scafisti. Ha la collaborazione del commissariato, di vari volontari, e di due traduttori di madrelingua. Si prodigano tutti. Si sacrificano, tra tenacia e spossatezza. Catarella si intenerisce, si infervora, e mette a disposizione delle operazioni caritatevoli la sua innocente quanto fragorosa rusticità. Il lettore procede, compunto, con il passo del pellegrino. E non si accorge che dietro le pagine si sta armando un romanzo perfettamente misterioso. Persino Montalbano viene colto di sorpresa. L’arrivo felpato del delitto gli dà il soprassalto. Si ritrova all’improvviso con un «gomitolo» in mano, inestricabile, che pretende di interagire con i suoi sogni abitati in quei giorni da gatti arruffati, pronti alla zampata, o che con negligente sicurezza giocano a liberare il bandolo di una palla di filo. In questo romanzo, che sempre più illividisce, anche gli oggetti stanno in agguato. E i dettagli appaiono foschi; e tali da darsi in associazioni del tutto imprevedibili. È stata trucidata una sarta, vedova, che la comunità vigatese rispetta per la sua bellezza portata con garbo e semplicità; e per la misurata riservatezza della sua vita. Ha avuto sì amori clandestini, ma placidi e sommessi, contornati di tenace amicizia o di domestica cordialità. Lo sgomento è generale. Persino l’ispido medico legale, Pasquano, si ammorbidisce davanti a un omicidio così inspiegabile.
Montalbano si isola nell’architettura di silenzio del luogo del delitto. Stenta ad afferrare un’intuizione, che scivolosa gli serpeggia nel pensiero. Stenografa mentalmente le sue sensazioni. Le ricompone in uno spettacolo mentale che fa scorrere come un film. Agguanta alla fine la supposizione. Le reliquie, sopravvissute al passaggio tumultuoso dell’ombra assassina, portano all’evidenza di quel sudario di memorie dentro il quale la vittima si era cucita in complicata e generosa solitudine; e conducono alla soluzione del giallo.
Salvatore Silvano Nigro
(Ed. Sellerio; La Memoria)

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