Il sorriso ai piedi della scala – Henry Miller

Incipit Il sorriso ai piedi della scala

Nulla poteva offuscare lo splendore dello straordinario sorriso dipinto sul melanconico volto d’Augusto. Sulla pista, quel sorriso aveva qualcosa di particolare d’infinito: esprimeva l’ineffabile.
Ai piedi d’una scala tesa versola luna, Augusto si sedeva in contemplazione, fissoil sorriso, perduti lontano i pensieri. Questa simulazioned’estasi, che egli aveva portato a perfezione, faceva sempre una grande impressione sul pubblico: pereva il sommo della stravaganza.
Beniamino delle arene, non gli mancavano le frecce all’arco, ma quello era un lazzo impossibile da imitare. Mai nessun comico aveva pensato di raffigurare sulla scena il miracolo dell’ascensione.

Incipit tratto da:
Titolo: Il sorriso ai piedi della scala
Autore: Henry Miller
Traduzione: Valerio Riva
Titolo originale: The Smile at the Foot of the Ladder
Casa editrice: Feltrinelli

Libri di Henry Miller

Copertine di Il sorriso ai piedi della scala di Henry Miller

Incipit The Smile at the Foot of the Ladder

Nothing could diminish the lustre of that extraordinary smile which was engraved on Auguste’s sad countenance. In the ring the smile took on quality of its own detached magnified expressing the ineffable.
At the foot of the ladder reaching to the moon, Auguste would in sit in contemplation, his smiles fixed his thoughts far away. This simulation of ecstasy, which he had brought to perfection always impressed the audience as the summation of the incongruous. The great favourite had many tricks up his sleeve this one was inimitable. Never had a buffoon thought to depict the miracle of ascension.

Incipit tratto da:
Title: The Smile at the Foot of the Ladder
Author: Henry Miller
Language: English

Quarta di copertina / Trama

“Questa è la sola storia vera che io abbia raccontato fino adesso,” ha scritto Miller nell’epilogo di Sorriso ai piedi della scala è forse l’unica storia scritta da Miller che abbia personaggi fantastici, racconti fatti che verosimilmente non appartengono alla biografia dell’autore e dei suoi amici, e sia situata in un ambiente non soltanto immaginario ma chiaramente simbolico. È vero che poche righe più sopra lo stesso Miller fa una distinzione tra gli altri suoi libri e questo fornisce una soluzione per sanare la contraddizione: “I miei personaggi sono tutti reali, presi dalla vita, dalla mia vita. Mentre Augusto [ il protagonista del Sorriso] è l’unico che nasce dal regno della fantasia. Ma che cos’è questo regno della fantasia che ci circonda e assedia da ogni parte, se non la realtà stessa?” E tuttavia è ancora una mezza spiegazione, una specie di esegesi reticente, una chiave igannevole. La verità è che il lettore ha il diritto di arrischiare un’interpretazione più impegnativa: il Sorriso è un apologo che Miller ha scritto sopra se stesso non come personaggio della vita, ma come personaggio della letteratura; e, secondo il metodo caro a Miller, è un apologo che si sviluppa a poco a poco, di riga in riga, e trova di volta in volta la sua morale ad ogni nuova svolta di racconto. Il clown è l’artista, lo scrittore, Miller stesso, che recita ogni sera “il dramma dell’iniziazione e del martirio” e che si ripromette non soltanto di far ridere la gente ma di cominciare la gioia ai suoi spettatori: la gioia intera, la gioia nuova, il sublime della buona novella e dell’ascensione nell’empireo: e crede di arrivarci attraverso il meccanismo tradizionale dell’espressione artistitica, la mimesi: in questo caso una mimesi dell’estasi. Ma il risultato sortisce è che gli spettatori ridono e applaudono soltanto alla perfezione del lazzo clownesco, all’abilità scenica; non attingono al sublime, rifiutano di fare un un passo al di là della soglia misteriosa, pretendono di restare ne banaale. La mimesi dell’estasi non può superare il limite della bravura: se lo supera s’attira solo gli insulti. Fu il dramma dell’autore dei Tropici, quando – come ha scritto il suo biografo Walter Schmiele — “proclamava la distruzione radicale, quando esaltava la grande insurrezione… quando voleva far saltare tutti gli strati della coscenza”; è il dramma del profeta del “paese del fotti,” fastidiosamente applaudito da turbe di ebeti aficionados affascinati dal virtuosismo nell’oscenità, paghi di trovare nei suoi libri soltanto una specie di grimaldello in brochure per i loro piccoli problemi sessuali quotidiani. Il periodo in cui scrive (originariamente su commissione) il Sorriso (1947-48) è lo stesso in cui Miller stende Plexus e Inc comincia la ricapitolazione della genealogia del suo mondo poetico in The Books of my Life, ossessionato da una citazione di Amiel: “Per il poeta tutto è meraviglioso, per il santo tutto è divino, per l’eroe tutto è grande, ma per l’anima bassa e impura tutto è miserabile, disperato, squallido, volgare, “D’altra parte il Sorriso è anche un frutto, magari tardivo, dell’entusiasmante scoperta di Rimbaud. Ed è naturale quindi considerarlo come il primo abbozzo, lo scarabocchio iniziale di quel lungo ripensamento della propria vita e della propria opera che caratterizzerà gli anni del dopoguerra e culminerà in Big Sur, e nella scoperta della luce paradisiaca della realtà, un paradiso “in cui non si predica e non si converte.” Per questo il Sorriso dà l’impressione di un racconto che procede a tentoni, di tappa in tappa: il rifiuto della parte di clown, prima; lo stordimento nell’anonimato poi; le consolazioni del l’umile utilità esistenziale; i disperati e ripetuti tentativi di doppia spersonalizzazione, in seguito, con il loro tragico risultato di rovina e di morte, e infine (ma quanto incerta, difficile, esitante!) la scoperta della realtà nella rinuncia a interpretare una parte altrui, nel porsi cioè uno scopo illuminante, nell’essere solo il clown che è in noi stessi: e il velo nero che cade sugli occhi d’improvviso a questa scoperta, come un sipario definitivo, ma che è in realtà non il sopravvenire del buio, bensì — come bene dice Miller — l’uscita della luce. Per questo — dice ancora Miller — le ultime pagine del racconto sono state le più difficili da scrivere. Ma nessuna esitazione offusca il tono di diffusa amarezza di queste pagine; nessuna inebriante scoperta della fissità di questa luce paradisiaca può mascherare il suono elegiaco del racconto. Se ci pare giusto considerare elegiaco il periodo successivo al 1947 nell’opera di Miller, il Sorriso ne è come l’annuncio nitido e a suo modo perfetto, un piccolo capolavoro nel genre delle overtures (V.R.)
(Feltrinelli Editore; Prima edizione)

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Incubo ad aria condizionata – Henry Miller

Incipit Incubo ad aria condizionata

Fu in un albergo di Pittsburgh che terminai il libro su Ramakrishna di Romain Rolland. Pittsburgh e Ramakrishna: è possibile un contrasto più violento? L’uno il simbolo della forza brutale e della ricchezza, l’altro la perfetta incarnazione dell’amore e della saggezza.
Cominciamo qui, dunque, proprio al centro dell’incubo, nel crogiuolo dovetutti i valori sonoridotti in scorie.
Mi trovo in quella che si può considerare una comoda stanzetta di un albergo moderno dotato di tutti gli ultimi comfort. Il letto è pulito e soffice, la doccia funziona perfettamente, la ciambella del gabinetto è stata sterilizzata alla partenza dell’ultimo ospite, se devo credere alla striscia di carta che l’inghirlanda; sapone, asciugamani, lampade, carta da lettere, tutto è fornito in abbondanza.
Sono depresso, depresso oltre ogni limite. Se dovessi occupare questa stanza per qualche tempo diventerei matto: o mi ucciderei. Lo spirito del posto, lo spirito degli uomini che ne hanno fatto l’orrenda città che è, filtra dalle pareti. C’è il delitto nell’aria. Mi soffoca.

Incipit tratto da:
Titolo: Incubo ad aria condizionata
Autore: Henry Miller
Traduzione: Vincenzo Mantovani
Titolo originale: The Air-Conditioned Nightmare
Casa editrice: Feltrinelli

Libri di Henry Miller

Copertine di Incubo ad aria condizionata di Henry Miller

Incipit The Air-Conditioned Nightmare

It was in a hotel in Pittsburgh that I finished the book on Ramakrishna by Romain Rolland. Pittsburgh and Ramakrishua — could any more violent contrast be possible? The one the symbol of brutal power and wealth, the other the very incarnation of love and wisdom.
We begin here then, in the very quick of the nightmare, in the crucible where all values are reduced to slag.
I am in a small, supposedly comfortable room of a modem hotdl equipped with all the latest conveniences. The bed is clean and soft, the shower functions perfectly, the toilet seat has beensterilized since the last occupancy, if I am to believe what is printed on the paper band which garlands it; soap, towels, lights, stationery, everything is provided in abundance.
I am depressed, depressed beyond words. If I were to occupy this room for any length of time I would go mad — or commit suicide. The spirit of the place, the spirit of the men who made it the hideous city it is, seeps through the walls. There is murder in the air. It suffocates me.

Incipit tratto da:
Title: The Air-Conditioned Nightmare
Author: Henry Miller
Language: English

Quarta di copertina / Trama

L’anno è il 1939: Henry Miller, scrittore maledetto e amatissimo, torna negli Stati Uniti dopo un decennale “esilio” francese. Il suo intento è andare alle radici dell’americanità, nella cultura e nella natura – maestosa, materna e feroce, commovente nel suo abbraccio onnicomprensivo. Il suo fu un grande viaggio che lo portò a incontrarsi e scontrarsi con un campionario di esseri umani vasto come gli Stati Uniti stessi. In questo libro Miller ci racconta come erano gli Usa negli anni quaranta, facendoci scoprire che per molti aspetti non erano tanto diversi dalla superpotenza che ancora oggi ben conosciamo: grandi affari e umane piccolezze, mass media che addormentano e incitano, inquinamento fuori controllo ma anche possibilità di lavorare duramente costruendo il proprio sogno. Un paese divenuto un “incubo ad aria condizionata” in cui uomo e natura non hanno più molto da dirsi ma continuano a convivere in un matrimonio indissolubile.
(Ed. Feltrinelli; Universale Economica)

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Tropico del capricorno – Henry Miller

Incipit Tropico del capricorno

Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos. Dal principio non fu mai altro che caos: un fluido che mi avviluppava, e io vi respiravo per branchie. Nei substrati, dove la luna brillava ferma e opaca, era liscio e fecondo; sopra era frastuono e discordanza. In tutte le cose io vedevo subito l’opposto, la contraddizione, e fra il reale e l’irreale l’ironia, il paradosso. Ero io il mio peggior nemico. Nulla c’era che volessi fare e potessi anche non fare. Anche bambino, quando nulla mi mancava, io volevo morire; volevo arrendermi perché non vedevo senso nella lotta. Sentivo che nulla si sarebbe provato, sostanziato, aggiunto o sottratto continuando un’esistenza che io non avevo chiesto. Tutti attorno a me eran dei falliti, e se non falliti ridicoli. Specialmente chi avesse avuto successo. Questi poi mi annoiavano fino alle lacrime. Ero comprensivo per chi sbagliava, ma non era la compassione a muovermi. Era una virtù meramente negativa, una debolezza che fioriva alla sola vista della miseria umana. Non ho mai aiutato nessuno aspettandomi che ciò gli facesse del bene; Io aiutavo perché non ero capace di fare altrimenti. Voler cambiare la condizione delle cose a me pareva futile; nulla sarebbe cambiato – ne ero convinto – se non per un mutamento del cuore, e chi può cambiare il cuore degli uomini? Di tanto in tanto un amico si convertiva; roba da vomitare. Non avevo bisogno di Dio, più di quanto Egli avesse bisogno di me, e se un Dio ci fosse, dicevo spesso fra me, andrei a trovarlo calmo calmo e Gli sputerei in faccia.

Incipit tratto da:
Titolo: Tropico del capricorno
Autore: Henry Miller
Traduzione: Luciano Bianciardi
Titolo originale: Tropic of Capricorn
Casa editrice: Mondadori

Libri di Henry Miller

Copertine di Tropico del capricorno di Henry Miller

Incipit Tropic of Capricorn

Once you have given up the ghost, everything follows with dead certainty, even in the midst of chaos. From the beginning it was never anything but chaos: it was a fluid which enveloped me, which I breathed in through the gills. In the sub-strata, where the moon shone steady and opaque, it was smooth and fecundating; above it was a jangle and a discord. In everything I quickly saw the opposite, the contradiction, and between the real and the unreal the irony, the paradox. I was my own worst enemy. There was nothing I wished to do which I could just as well not do. Even as a child, when I lacked for nothing, I wanted to die: I wanted to surrender because I saw no sense in struggling. I felt that nothing would be proved, substantiated, added or subtracted by continuing an existence which I had not asked for. Everybody around me was a failure, or if not a failure, ridiculous. Especially the successful ones. The successful ones bored me to tears. I was sympathetic to a fault, but it was not sympathy that made me so. It was a purely negative quality, a weakness which blossomed at the mere sight of human misery. I never helped any one expecting that it would do any good; I helped because I was helpless to do otherwise. To want to change the condition of affairs seemed futile to me; nothing would be altered, I was convinced, except by a change of heart, and who could change the hearts of men? Now and then a friend was converted; it was something to make me puke. I had no more need of God than He had of me, and if there were one, I often said to myself, I would meet Him calmly and spit in His face.

Incipit tratto da:
Title: Tropic of Capricorn
Author: Henry Miller
Language: English

Quarta di copertina / Trama

“L’oscenità di Miller: se ne parla troppo. Leggendolo non me accorgo, perchè vedo di là, in trasparenza. Non appiccica e non trattiene, perché guarda oltre se stessa.
‘L’oscenità che è estasi’, posta accanto alla ‘violenza dei profeti.’
‘L’osceno è il baratro nascosto’; è un tentativo di spiare i segreti processi dell’Universo.’
Non è l’unico mezzo per farlo, e possiamo pensare a uno scrittore che non l’usi anche avendo lo stesso fine.
Ma è un mezzo; il fine è l’altro, quello che ha dichiarato Miller. Una frase di lui che mi colpisce è questa: ‘ La Western Union fu per me quello che la Siberia era stata per Dostoevskij.’
Tutti siamo irretiti da un inferno dello stesso genere. L’oscenità è uno dei tanti mezzi per guardare oltre la Wester Union-Siberia, e accorgersi che è minata…

“Non riesco a vedere una grande diversità, nei motivi e nel fine, tra libri come quelli di Miller e, per esempio, Le confessioni di Sant’Agostino.
GUIDO PIOVENE, dalla “premessa”
(Ed. Feltrinelli; I Narratori di Feltrinelli 98)

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