Piccoli miracoli e altri tradimenti – Valeria Parrella

Incipit Piccoli miracoli e altri tradimenti - Valeria Parrella

Incipit Piccoli miracoli e altri tradimenti

Era successo tutto nello stesso giorno, il giorno in cui mio marito, l’artista, aveva preparato dei segnaposti per il pranzo su cui aveva scritto il nome di tutti, tranne il mio. O meglio: il mio segnaposto c’era, ma lui ci aveva scritto “Mamma”. Ora, si capisce che se lo scrive un figlio, d’accordo, ma se lo scrive un marito. Con l’orlo svolazzante della emme. Con una foglia d’agave che la contornava, acquerellata.
Al suo solito posto, a capotavola, c’era scritto “Raffaello”.
“Ci vuoi fare pure un ex libris?”
“Perché non ti piace?”
“Perché non c’è il mio nome.”
“Ma amore.”
“Ma no.”
“È un pranzo per nostro figlio, tu sei la mamma.”
(Mamma)

Incipit tratto da:
Titolo: Piccoli miracoli e altri tradimenti
Autrice: Valeria Parrella
Casa editrice: Feltrinelli
In copertina: © Hernan Regiardo

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Piccoli miracoli e altri tradimenti - Valeria Parrella

Quarta di copertina / Trama

“La misura del racconto è un piccolo miracolo, un luogo della letteratura dove ‘piccolo’ non diminuisce la quantità del miracolo ma la rende esatta.
In questo libro di racconti, scritto da una lettrice di racconti, poi, ci sono altri piccoli miracoli, storie inventate e raccolte all’incrocio tra l’umano e il divino, in quel punto della strada, cioè, in cui le storie quotidiane appaiono eroiche, quelle eroiche sono naturali e il destino non è altro che una delle possibili variazioni del caso. Lì, a guardare bene, c’è un pantheon in attesa di essere colto: nelle città, nei bar, sulla spiaggia, tra le lenzuola e durante una partita di tennis.
A svelare l’intersezione basta un tradimento, subìto o inferto, da sé e dall’altro; tradisce chi non riesce o non vuole aderire alle circostanze.
Qui nessuno sta dove dovrebbe stare.”
Valeria Parrella
(Feltrinelli; Narratori)

La fortuna – Valeria Parrella

Incipit La fortuna - Valeria Parrella

Incipit La fortuna

La rotta era facile: andare dove nessuno sarebbe andato.
Navigando verso la nuvola ho capito che eravamo rapiti da essa, attratti come dietro un incantamento. La nuvola non era fatta di acqua, faceva piovere, sì: ma pioveva cenere, uguale a quella che resta alla fine della sera nei bracieri.
Quando si attraversa un banco di nubi si va avanti fino a sbucare dall’altra parte per vedere la costa, e noi così abbiamo fatto. Ma era la costa che stava venendo verso di noi: il mare si era riempito di pietre e non c’era più pescaggio per le nostre chiglie. Le mappe non corrispondevano più al mondo, e il disegno della terra non assomigliava al mio ricordo. A quel punto i marinai sono impazziti per la paura e non potevamo che tornare indietro. Sotto i nostri scafi non c’era più acqua, dovevo impartire l’ordine, subito.
Del resto ci sono solo due modi di vivere: uno è avere sempre paura. Arrischiarsi il meno possibile, chiudersi in casa, fare sempre gli stessi movimenti, mangiare le stesse cose, incontrare le stesse persone, oppure proprio più nessuno. Assumere che il giorno faccia il giorno e la notte la notte. Ascoltare l’agguato dei malanni, quasi tendere loro l’orecchio: a ogni prurito, ogni morso della fame, ogni dolore.
Oppure guardare verso la paura e dire:
“Mi fa paura quella cosa lì. Quel pezzo di vita. Quella scelta, quell’esercitazione che il maestro di retorica si aspetta da me, quella carica che vuole assegnarmi l’imperatore. Mi fa paura la strada che porta fuori dalle mura, i barbari asserragliati alle colline, il rumore nel mezzo della notte di cui non so distinguere l’origine. Mi fa paura la donna che vorrei, perché la voglio”.
Ognuna di queste paure dice sempre la stessa cosa: ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire. Per la più piccola o la più grande impresa: noi possiamo morire, perché affrontandola scopriamo che non ne eravamo all’altezza, che quello non era il nostro posto nel mondo né il nostro destino né avevamo sufficiente abilità per sederci al tavolo di quel gioco. Se falliamo, moriamo.
Io dunque credo che ogni paura sia un piccolo gioco con la morte: un avvistamento a cui possiamo decidere o meno di dare seguito: il cane che punta verso il cespuglio quando non sai ancora se lo asseconderai.

Incipit tratto da:
Titolo: La fortuna
Autrice: Valeria Parrella
Casa editrice: Feltrinelli
In copertina: © Mimmo Jodice, Atleti dalla villa dei papiri, 1986 (particolare).
Qui è possibile leggere le prime pagine di La fortuna

La fortuna - Valeria Parrella

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Quarta di copertina / Trama

Il prodigio viene dalla terra, e scuote aria e acqua. Dal cielo piovono pietre incandescenti e cenere, il mare è denso e la costa sembra viva, ogni mappa disegnata è stravolta, i punti di riferimento smarriti.
Lucio ha solo diciassette anni e ha seguito l’ammiraglia di Plinio il Vecchio nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, ma non può sospettare che il monte che conosce da sempre sia un vulcano. Per quel prodigio mancano le parole, non esiste memoria né storia a rassicurare.
Nascosta dalla coltre rovente c’è Pompei, la città che ha visto nascere Lucio e i suoi sogni, dove ancora vivono sua madre, la balia, gli amici d’infanzia, dove ha imparato tutto ciò che gli serve, adesso, per far parte della flotta imperiale a dispetto del suo occhio cieco – anzi, proprio grazie a quello, che gli permette di vedere più degli altri, perché “un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”.
E mentre Lucio tiene in mano, per quanto la Fortuna può concedere, il filo del suo destino, ecco che Pompei torna a lui presente e più che mai viva, nel momento in cui sembra persa per sempre, attraverso i giochi con le tessere dei mosaici, i pomeriggi trascorsi nei giardini o nelle palestre, le terme, il mercato, i tuffi in mare e le gite in campagna, le scorribande alla foce del fiume. La sua intera giovinezza gli corre incontro irrimediabilmente perduta, eppure – noi lo sappiamo – in qualche modo destinata a sopravvivere.
Insieme a Lucio, una folla di personaggi, mercanti, banchieri, matrone, imperatori, schiavi, prostitute e divinità, si muove tra le pagine di un romanzo sorprendentemente attuale, in cui niente è già visto: piuttosto ciò che conoscevamo del mondo classico
ci appare in un aspetto nuovo, moderno e intimo.
Perché il desiderio è nascosto, si innalza dalla terra, è il cuore stesso della terra, e noi siamo terreni.
(Ed. Feltrinelli; I Narratori)

Almarina – Valeria Parrella

Incipit Almarina - Valeria Parrella

Incipit Almarina

Mi chiamo Elisabetta Maiorano, e non è che me lo stia chiedendo qualcuno: sono io che me lo ripeto in testa ogni volta che arrivo al varco di Nisida (come mi ripeto in testa il codice del bancomat mentre sto ancora camminando verso lo sportello). Ogni volta che entro mi sento in colpa. Alla sbarra, quando mi fermo per farmi riconoscere, mi viene da abbassare gli occhi, mostro il viso senza davvero guardare in faccia l’agente, come se avessi la macchina carica di cocaina. E la vedo alzarsi con uno sforzo enorme, quella sbarra, come se la dovessi sollevare io, fosse colpa mia che Nisida è un carcere minorile, le avessi scavate con le mie mani le strade di tufo che fanno arrampicare su la macchina. Come se mi stessero facendo un favore.
Appena arrivo davanti a quella sbarra perdo ogni diritto civile, ogni sostanza acquisita nel tempo, non sono piú nessuno, né una laureata, né un’insegnante che ha vinto concorsi, che ha fatto anni di supplenze al nord e sa rispondere male a chi non rispetta la fila. Quella che va a denunciare lo specchietto scassato, le gomme bucate, lo sportello rigato dalla chiave. («Perché signora, lei sa chi è stato?» «Sí lo so: un parcheggiatore abusivo sotto San Pasquale, che voleva i soldi e che gli ho detto che invece li davo a un musicista». «Mi sa che pure il musicista era abusivo»).
All’angolo della guardiola di Nisida mi lascio vivisezionare, ma è impressione solo mia, mi dico: ché tanta gente sale sopra alla mattina, educatori, insegnanti e maestri dei laboratori, e io ho pure la targa registrata, infatti mai che mi chiedano il perché. E forse manco lo sanno, loro, messi in servizio un giorno lí e il mese dopo dove, che saliamo la montagna del purgatorio, e quando scenderemo non saremo piú gli stessi.
Elisabetta Maiorano. Da tre anni vado in giro con il passaporto invece che con la carta d’identità, perché sul passaporto non c’è scritto lo stato civile, e io ho ancora la carta su cui stamparono «coniugata» e non ho nessuna voglia di tornare all’anagrafe per farmela aggiornare.
(C’era un sacco di polvere che rendeva l’atmosfera ironica, mentre facevo la carta d’identità: impossibile crederci davvero. Gli impiegati erano indistinguibili dai cittadini, o forse no: erano piú consunti, avevano maglioni che non sarebbero mai tornati di moda.
«Ma non si può mettere “omesso” a stato civile e lavoro?» «Signò, quando non volete far sapere che siete sposata usate il passaporto».

Incipit tratto da:
Titolo: Almarina
Autrice: Valeria Parrella
Copertina: Foto Paula Daniëlse / Getty Images
Casa editrice: Einaudi
Qui è possibile leggere le prime pagine di Almarina

Almarina - Valeria Parrella

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Quarta di copertina / Trama

Può una prigione rendere libero chi vi entra? Elisabetta insegna matematica nel carcere minorile di Nisida. Ogni mattina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso, un’isola nell’isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi e sparire. Almarina è un’allieva nuova, ce la mette tutta ma i conti non le tornano: in quell’aula, se alzi gli occhi vedi l’orizzonte ma dalla porta non ti lasciano uscire. La libertà di due solitudini raccontata da una voce calda, intima, politica, capace di schiudere la testa e il cuore.
Esiste un’isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull’acqua, ed è lí che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant’anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l’altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d’amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi. Di espiare, dimenticare, ricominciare. «Vederli andare via è la cosa piú difficile, perché: dove andranno. Sono ancora cosí piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».
(Ed. Einaudi)