Filologia dell’anfibio – Michele Mari

Incipit Filologia dell’anfibio

Sentii parlare per la prima volta del mio servizio militare nella panetteria di piazzale Baracca, nel modo che credo il piú comune: «Che bel giuinòt te set diventee, adess te set bon de fà ’l soldà», defalsuldà. Non ricordo l’anno, ma posso contare sul terminus ante quem del 1964, anno in cui i miei genitori si separarono e io andai con mia madre e mia sorella in un’altra casa: avevo quasi nove anni, come Beatrice quando fu primamente vista da Dante.
Del servizio militare presi meno vaga coscienza per certe nuove che arrivavano da mio zio Elio, milite proprio in quel tempo a Palermo (ricordo una sua fotografia in calzoncini corti e rapato, con il mitra, tra i cactus e i fichi d’India). Qualche anno fa, rileggendo una sua lettera a mio nonno, ho constatato che non esagerava affatto nella raccapricciante descrizione del rancio, come, pur fascinato, avevo invece creduto in origine al sentirla letta ad alta voce dalla nonna: che si interrompeva sovente squassata da tremendi accessi di riso.

Incipit tratto da:
Titolo: Filologia dell'anfibio. Diario militare
Autore: Michele Mari
Casa editrice: Einaudi

Libri di Michele Mari

Copertine di Filologia dell'anfibio di Michele Mari

Quarta di copertina / Trama

«Strano “diario”, questo di Mari, nel suo tono perennemente oscillante tra un aggressivo grottesco, esaltato dall’espressivismo linguistico e stilistico, sino ai limiti della piú dirompente comicità, e una malinconia esistenziale, pronta a struggersi nei rimpianti memoriali e sentimentali».
Cesare De Michelis

Come affrontare quell’esperienza, infima piú che infernale, che è stato il C.A.R. (Centro Addestramento Reclute)? Come raccontare il microcosmo dell’esercito, in cui si riproducevano gli stessi difetti, gli stessi vizi della nazione italiana nel suo complesso? Mari lo ha fatto con le armi dello scrittore fantastico che si avvicina a una realtà aliena, e con quelle del filologo, che usa analisi e spirito critico per evidenziare tutte le assurdità di un apparato tanto obsoleto e cristallizzato quanto, proprio per questo, paradossalmente affascinante. E, descrivendo in modo classificatorio e maniacale ogni momento di quei mesi, trasforma la dilapidazione e la noia in spettacolo letterario.
(Ed. Einaudi)

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