Il sapore della gloria – Yukio Mishima

“Dormi bene caro”

Incipit Il sapore della gloria

“Dormi bene caro”
la madre chiuse a chiave dall’esterno la camera di noburo. Chi sa cosa pensava di fare nel caso fosse scoppiato un incendio. Certo, si riprometteva di riaprirla subito. E se a causa del calore, il legno si fosse ingrossato e la vernice fosse colata nella toppa della serratura? Scappare dalla finestra? Ma il terreno sottostante era lastricato e il secondo piano di quella casa era disperatamente alto.
Era solo colpa sua, di Noburo. Era sgattaiolato fuori di notte, istigato dal “capo”, di cui non voluto rivelare il nome.

Incipit tratto da:
Titolo: Il sapore della gloria
Autore: Yukio Mishima
Traduzione: Mario Teti
Titolo originale traslitterato: Gogo no eiko
Casa editrice: Mondadori

Libri di Yukio Mishima

Copertine di Il sapore della gloria di Yukio Mishima

Quarta di copertina / Trama

Un romanzo giapponese è sempre, in qualche misura, “mistero rituale” né si può dire che l’industrializzazione del paese abbia mozzato le radici antichissime e barbariche, dell’anima nipponica. I due mondi, al contrario convivono in una singolare, anzi unica simbiosi, per un tipo di astrazione “dentro” la realtà che è tipicamente orientale. E’ in tale dimensione che rientra, anche il romanzo di Mishima. In principio c’è una rivelazione sessuale. Per il ragazzo Noburo però, dal momento che la “vede” nel corpo stesso della madre, essa assume speciali significati. D’altro canto, vi succede presto una seconda (il marinaio che si impadronisce di quel corpo) e poi una terza rivelazione (la necessità di “punire” il marinaio). E’ qui che le oscure ragioni di Noburo vengono, si direbbe, legalizzate dal gruppo di coetanei cui egli appartiene. “I padri sono mosche…” sentenzia il “capo”. E il marinaio poiché mostra di voler diventare il nuovo padre di Noburo, va sottoposto al sacrificio. “Ci vuole del sangue! Del sangue umano!” Uccisori e seviziatori di gatti, apprendisti stregoni – ma con una grande stilizzazione da grandi chirurghi – i ragazzi individuano nel delitto “giusto” in linea con tutto il loro rituale, una fuga dall’oscurità, l’unico mezzo per uscire vittoriosi dal guscio ancora infantile che li opprime. Fino a che punto, quindi, il loro si può chiamare delitto? Mishima romanziere di mezzi sottilissimi, non ce lo dice. Attento a ogni pur lieve trasalimento, però, egli lavora con estrema pulizia in mezzo a una materia di per sè tanto infetta; e pagina su pagina finisce per aprirci nuove propettive, pur muovendosi – per vocazione – dall’infinitamente piccolo. Questo romanzo ha conteso sino all’ultimo il premio Formentor a Cosmo di Gombrowicz.
(Ed. Mondadori; Medusa)

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