Il dono di Humboldt – Saul Bellow

Incipit Il dono di Humboldt di Saul Bellow

Incipit Il dono di Humboldt

Il libro di ballate pubblicato da Von Humboldt Fleisher negli anni Trenta riscosse un immediato successo. Humboldt era, appunto, colui che tutti quanti attendevano. Io per me l’aspettavo ardentemente, dal mio fondo di provincia nel Midwest, ve l’assicuro. Scrittore d’avanguardia, il primo della sua generazione, era bello, era biondo, grande e grosso, serio e insieme spiritoso, ed era colto. Insomma, aveva tutto. Nessun giornale mancò di recensire il suo libro. La sua foto comparve su «Time» senza ingiurie e su «Newsweek» con elogi. Io le lessi con trasporto, le Ballate di Arlecchino. Ero studente all’Università del Wisconsin e non pensavo ad altro, giorno e notte, che alla letteratura. Humboldt mi rivelò nuovi orizzonti, nuovi modi di fare. Andavo in estasi. Gli invidiavo il talento e la fortuna, invidiavo la sua fama. E a maggio me ne andai all’Est proprio per lui: contando di vederlo, magari di avvicinarlo. Il viaggio, in corriera, passando per Scranton, durò una cinquantina di ore. Che importava? Guardavo dal finestrino aperto: non avevo mai visto, prima, vere montagne. Gli alberi mettevano gemme e germogli. Pareva la Pastorale di Beethoven. Mi sentivo inondare di verde, dentro di me. Anche Manhattan mi andò subito a genio. Mi affittai una camera per tre dollari alla settimana, e trovai un lavoro: vendevo spazzole di porta in porta. Tutto quanto mi dava una selvaggia eccitazione. Siccome avevo scritto a Humboldt una lunga lettera, da ammiratore, venni presto invitato a casa sua, per conversare di letteratura, di altre cose elevate. Abitava in Bedford Street, nel Greenwich Village, poco lontano da Chumley’s. Mi offrì del caffè nero e, nella stessa tazza, versò pure del gin. «Mi hai l’aria di un bravo ragazzo, Charlie» mi disse. «Non sarai mica un furbacchione, alle volte? Mi sa tanto che diventerai presto calvo. E che occhi grandi che hai, belli, espressivi! Però senz’altro ami la letteratura, e questo è quel che più conta. Hai sensibilità» mi disse. Era un pioniere, nell’uso di quella parola. Di lì a poco “sensibilità” fece furore. Humboldt fu molto gentile con me. Mi fece conoscere gente del Village, mi procurò libri da recensire. Io gli ho sempre voluto molto bene.

Incipit tratto da:
Titolo: Il dono di Humboldt
Autore: Saul Bellow
Traduzione: Pier Francesco Paolini
Titolo originale: Humboldt’s Gift
Casa editrice: Rizzoli
Qui è possibile leggere le prime pagine di Il dono di Humboldt

Il dono di Humboldt - Saul Bellow

Incipit Humboldt’s Gift

The book of ballads published by Von Humboldt Fleisher in the Thirties was an immediate hit. Humboldt was just what everyone had been waiting for. Out in the Midwest I had certainly been waiting eagerly, I can tell you that. An avant-garde writer, the first of a new generation, he was handsome, fair, large, serious, witty, he was learned. The guy had it all. All the papers reviewed his book.

Incipit tratto da:
Title: Humboldt’s Gift
Author: Saul Bellow
Publisher: Penguin Classics
Language: English

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Quarta di copertina / Trama

«È grosso modo un libro comico sulla morte.» Così lo stesso Saul Bellow ha definito – in un’intervista a Nesweek – il suo ultimo, attesissimo, celebrato e discusso romanzo.
Giunto alla maturità, il protagonista Charles Citrine – coetaneo e in gran parte altar ego dell’autore – si trova sbalzato, da un mondo di quasi-certezza e di quasi-sicurezza (in primo luogo quella offerta dal denaro, « linfa vitale della società » ) in un pantano di dubbi, di rimorsi metafisici e preoccupazioni pratiche. Le sue giornate sono una congerie di buffe assurdità. È attaccato da ogni parte: l’ex moglie lo cita in tribunale per spolparlo, l’amante briga per incastrarlo in una nuova trappola nuziale, il fisco lo tartassa, un amico imbroglione colto e snob lo salassa. Poi ci si mette anche un gangster da quattro soldi – pazzoide ma a suo modo affascinante – a strapazzarlo ben bene, alternando fantasiose minacce a fantastiche proposte. Se il futuro è inquietante, il passato non è meno incerto. È, infatti, soprattutto un ricordo a non dar requie a Citrine: quello del suo amico, poeta dall’esordio folgorante, negli anni Trenta, poi travolto da machiavelliche ambizioni di potere, risucchiato nel gorgo della follia, morto in miseria in uno squallido albergo, abbandonato da tutti, anche – ahilui – dall’amico fraterno Citrine.
Grande, erratica figura – parte genio, parte buffone – il personaggio di Humboldt (già morto da anni all’inizio del romanzo, in cui campeggia con leonina autorità, saturnina malinconia) si ispira al « poeta maledetto » Delmore Schwartz, coro amico di Bellow, tanto scomodo all’establishment in vita quant utile a esso dopo morto. Per placare, appunto, l’inquieto fantasma, Citrine tenta di mettersi in contatto coi defunti e – scartato lo spiritismo, abbracciate le dottrine antropomorfiche – sogna di portar avanti in qualche modo l’opera di Humboldt e, insieme, di scoprire «un modo più corretto di pensare alla morte ».
Pensieri, peraltro, di continuo intralciati da intrusioni e incidenti. Finché Humboldt, dall’oltretomba, beffardo deus ex macchina, non interverrà a mutare nuovamente la sorte dell’amico con un improbabile, patetico dono (che ha tutta l’aria di una burla postuma). Ai colpi di scena, frequenti, talvolta esilaranti, si alternano e si intrecciano quelle che Citrine/Bellow definisce le sue « occasioni mentali ». Se spezzano l’azione, esse vi gettano sprazzi di luce intensa, ora di un fulminante sarcasmo, ora d’una sorniona saggezza, assumendo in alcuni casi l’entità di veri e propri saggi, incorporati nel tessuto narrativo. Ampie riflessioni – come osservava Paolo Milano sull’Espresso – sulla natura dell’America, sul dilemma (valore o potere) dell’intelletuale, sulla noia e sul denaro e soprattutto sulla morte.
Un romanzo « romanzo di idee», è stato giustamente definito. E, a chi l’accusa di prolissità (non senza fondamento; cosa del resto self-ironizzata dallo stesso Citrine nella metafora autolesionistica del suonatore di mandolino « che pizzica ogni nota dieci volte») risponde Richard Rhodes della Chicago Tribune: « The talk is all, and marvelous talk it is » (Il discorso, la chicchera, è tutto e, qui, la chicchera è meravigliosa.
Citrine è stato paragonato (da John Leonard, sulla New York Times Book Review) a una specie di Felix Krull all’incontrario (i truffatori sono tutti gli altri). Ma possiamo anche pensare a un ironico idiota dostoievskiano. Se non sono mancati dissensi ( fra cui quello di John Updike sul New Yorker) la critica anglosassone ha accolto con grande favore, o comunque con enorme attenzione, questo romanzo.
(Ed. Rizzoli; La Scala)