La luna di carta – Andrea Camilleri

La sveglia sonò, come tutte le mattine da un anno a ‘sta parti, alle setti e mezza.

Incipit La luna di carta

La sveglia sonò, come tutte le mattine da un anno a ‘sta parti, alle setti e mezza. Ma lui si era arrisbigliato una frazione di secunno prima dello squillo, era abbastato lo scatto della molla che mittiva in moto la soneria. ebbe perciò , prima di satare dal letto, il tempo di girare, l’occhi alla finestra, dalla luce accapì che la jornata s’appresentava bona, senza nuvoli. Doppo, il tempo fu appena bestevole per pripararsi il cafè, vivirisinni una cicarata, andare a fari i sò bisogni, farisi la varva e la doccia, vivirisi n’autra cicarata, addrumarisi una sicaretta, vistirisi, nisciri fora, mittirisi in machina, arrivari alle novi in commissariato: il tutto con la velocità di una comica di Ridolini i di charlot.
Fino a un anno avanti, la procedura dell’arrisbigliata matutina aviva invece caminato secunno regole diverse e, soprattutto, senza affanno e senza cerrute da centometrista.

Incipit tratto da:
Titolo: La luna di carta
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio

Libri di Andrea Camilleri

Copertina di La luna di carta di Andrea Camilleri

Risvolto di copertina / Trama

Tra due donne forti e insidiose deve industriarsi il commissario Montalbano: una estroversa, e di franca sensualità; l’altra segreta, e di morbosi ardori, capace di tutto intraprendere e di tutto nascondere. Si sgambettano a vicenda, le due donne, su scivolosi precedenti: che sono esche e trappole per il commissario («Quann’era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo, gli aveva contato che la luna ‘ncelu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto. E ora, maturo, sperto, omo di ciriveddro e d’intuito, aviva nuovamente criduto come un picciriddro a dù fìmmine…, che gli avivano contato che la luna era fatta di carta»). La verità non procura rimedio. Se non è vittoria è purtroppo vendetta. Rovinosa e tragica. Secca e asciutta, nell’orrore: «la tragedia, quann’è recitata davanti alle pirsone, assume pose e parla alto, ma quando è profondamente vera parla a voce vascia e ha gesti umili. Già, l’umiltà della tragedia». Il commissario interloquisce con l’incipiente vecchiaia. Ricalibra le sue negligenze. Escogita ripari alla ruggine degli anni. Impara a convivere con l’ossessione della morte (un orologio biologico che batte l’ora grave) e dà udienza a passi ciechi che conducono al mistero di una casa «morta» (alla Faulkner): nella quale, attorno a un cadavere oscenamente atteggiato, si impaludano e covano le acque putride di passioni irritabili e scenografiche; insieme al fondiglio di un’oscenità politica, che lascia emergere cadaveri eccellenti e prospere viziosità. La trama è torbida, in questo romanzo che la palude stigia (facsimile della morte civile) fa solidarizzare con una politica governativa drogata di ordinaria anormalità.
Salvatore Silvano Nigro
(Ed. Sellerio; La memoria)

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