Il sonaglio – Andrea Camilleri

Incipit Il Sonaglio

Alla prima duminica del misi di fivraro del primo anno che il seculo novo era ancora un agniddruzzo che non arrinisciva a tinirisi addritta supra alle so gamme, capitò che le dù campani della chiesa matrici si misiro a sonari alla dispirata che manco erano le quattro del matino.
In paìsi c’erano i borgisi che avivano i ralogi ‘n casa e che comunqui avivano i palazza ‘n centro e accussì potivano sintiri il ralogio del municipio che a ogni quarto d’ura scassava i cabasisi e po’ c’erano i minatori, i viddrani, i jornatanti, i carritteri, i morti di fami che il ralogio non l’avivano, che bitavano squasi ‘n campagna, ma che l’ora del jorno o della notti l’accapivano lo stisso, anzi meglio del ralogio, col camino del soli o delle stiddre.

Incipit tratto da:
Titolo: Il sonaglio
Autore: Andrea Camilleri
Casa editrice: Sellerio

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Copertina di Il sonaglio di Andrea Camilleri

Risvolto di copertina / Trama

La legge suprema delle cose è il mutamento. Nell’antichità lo diceva il poeta Lucrezio: che poneva il mondo a caso, ma negando il mistero di natura e le metamorfosi degli dèi. Eppure il fantastico chiama attorno a sé l’orizzonte tutto della vita normale. È una coestensione della realtà. E autentica se stesso, verificando il pensabile sul visibile. Lo scrittore Tommaso Landolfi, esperto in piedicapre, raccontò una volta di una capra mannara. E ne diede sufficiente testimonianza: «La fanciulla portava le sue appendici caprine come le sirene la loro coda; non ci si rimette di coscienza con questa immagine, né si nuoce alla precisione, giacché non si dà chi, volendo, non abbia visto una sirena». Sui versi tradotti di Lucrezio, Giurlà impara a farsi amico un paesaggio di pascoli e stazzi che prima non gli teneva compagnia; e impara ad accordare la selvatichezza con la felicità e il piacere. L’adolescente Giurlà è un mandriano di capre. Proviene dalla costa. È un ottimo nuotatore, e ha rischiato di diventare un altro Cola Pesce. Ha sfiorato pure il pericolo della deportazione nelle terre calve: poteva diventare un caruso, un nuovo (pirandelliano) Ciàula negli antri infernali e nelle tenebre di una zolfara. Come guardiano di armenti, sugli altopiani, poteva toccargli in sorte (verghianamente) il destino di solitudine di Jeli il pastore. Giurlà approda invece in una prateria. Si immerge e galleggia nell’erba, o nelle acque sciapide di un lago, ora. Sente l’allarme dei sensi. E cerca calore nel pelliccione di una capra, tra una musata e una sgroppata. La capra, Beba, è solitaria: ostinata e fedele; oltre che di permalosa gelosia. Sa battere gli zoccoli, al momento opportuno, e imporsi, dopo i lagni di un belare querulo e dolente. Beba è ferina e misteriosamente umana. Sa amare e farsi amare. Giurlà è, a sua volta, un amante che non sopporta la distanza; e neppure l’attesa. La favola della capra-donna è di nuda tenerezza; assai diversa dalla cronaca pelosa della continuata violenza, che «armàli» più grossi dei becchi consumano intanto su una innocente «pupa» fatta di carne. Beba è diversamente innocente, pur nella sua selvaggia rustichezza. E trova umano riscatto nella complementare Anita: la marchesina, che ha un suo amabile segreto femminile, un mirabile attributo; la moglie di Giurlà, alla fine, con sonaglio al collo e zoccolo caprino. Nelle masserie, una narratrice, continua a raccontare storie di metamorfosi. Ragguaglia su Giove, che si fece cigno per Leda; e su Pasifae, che si fece montare da un toro. Salvatore Silvano Nigro
(Ed. Sellerio; La memoria)

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