Lucy davanti al mare – Elizabeth Strout

Incipit Lucy davanti al mare - Elizabeth Strout

Incipit Lucy davanti al mare

Anch’io, come molti altri, non l’ho vista arrivare.
William però è uno scienziato, e lui sí che l’ha vista arrivare; l’ha vista prima di me, è questo che intendo.
William è il mio primo marito; siamo stati sposati per vent’anni e divorziati per altrettanti. Siamo rimasti in buoni rapporti, di tanto in tanto ci vedevamo; stavamo tutti e due a New York, dove eravamo venuti a vivere appena sposati. Ma dato che mio marito (il secondo) era morto, e sua moglie (la terza) lo aveva lasciato, nell’ultimo anno l’avevo visto di piú.
Piú o meno quando la terza moglie lo stava lasciando, William ha scoperto di avere una sorellastra nel Maine; l’ha scoperto su un sito di ricerca genealogica. Aveva sempre creduto di essere figlio unico, perciò è stata una sorpresa pazzesca per lui, e mi ha chiesto di andare due giorni insieme su nel Maine a cercarla, e cosí abbiamo fatto, ma lei… si chiama Lois Bubar… Beh, io l’ho incontrata, ma William lei non ha voluto incontrarlo. C’è dell’altro: durante quel viaggio nel Maine abbiamo scoperto delle cose su sua madre che hanno lasciato William molto disorientato. Hanno disorientato anche me.

Incipit tratto da:
Titolo: Lucy davanti al mare
Autrice: Elizabeth Strout
Traduzione: Susanna Basso
Titolo originale: Lucy by the Sea
Casa editrice: Einaudi
Lucy davanti al mare - Elizabeth Strout

Incipit Lucy by the Sea

Like many others, I did not see it coming.
But William is a scientist, and he saw it coming; he saw it sooner than I did, is what I mean.
William is my first husband; we were married for twenty years and we have been divorced for about that long as well. We are friendly, I would see him intermittently; we both were living in New York City, where we came when we first married. But because my (second) husband had died and his (third) wife had left him, I had seen him more this past year.
About the time his third wife left him, William found out that he had a half-sister in Maine; he found it out on an ancestry website. He had always thought he was an only child, so this was a tremendous surprise for him, and he asked me to go up to Maine for two days with him to find her, and we did, but the woman—her name is Lois Bubar— Well, I met her but she did not want to meet William, and this made him feel very terrible. Also, on that trip to Maine we found out things about William’s mother that absolutely dismayed him. They dismayed me as well.

Title: Lucy by the Sea
Author: Elizabeth Strout
Language: English

Quarta di copertina / Trama

La scrittrice Lucy Barton non ha mai cancellato un tour promozionale in vita sua. Eppure, quasi senza saperne la ragione, quel tour in Europa, previsto per i primi mesi del 2020, l’ha disdetto. «Meno male che non sei andata in Italia, – le diranno poi, – là c’è il virus». È William, lo scienziato William, il primo marito di Lucy, da poco reduce dal fallimento del suo terzo matrimonio e dal rifiuto di una sorellastra che non lo vuole incontrare, a passare all’azione per primo: Lucy ha poche ore per preparare un bagaglio essenziale, chiudere casa e partire con lui alla volta di una casetta in affitto sulle coste del Maine. Anche le loro figlie, Chrissy e Becka, e i rispettivi mariti dovranno raggiungere luoghi piú protetti. L’imperativo per tutti, nei piani di William, è lasciare la città, con il suo brulicare di vita e pericoli, e mettersi al riparo. Pur incredula e sgomenta, Lucy accetta di seguire l’ex marito a Crosby, Maine. Per loro inizia cosí la routine interminabile di una quotidianità dilatata nella ripetizione di piccoli gesti sempre uguali a se stessi che la pandemia ha caricato di senso; una routine ammanettata all’assenza di vita – «Certe volte dovevo uscire di casa al buio e andare giú fino al mare, imprecando ad alta voce» – eppure preziosa perché garanzia della prosecuzione. E poi un inedito senso di solitudine e isolamento. La nostalgia. La preoccupazione per i cari distanti. L’amarezza di certi allontanamenti. La rabbia e la noia. La grande paura, individuale e collettiva: quella che fa avvicinare una furente abitante del luogo all’automobile con la targa della metropoli, urlando a una Lucy Barton sconvolta: «Maledetti newyorkesi! Via da casa nostra!» E poi l’ottusità, che la paura sempre porta con sé, in seno all’inconsapevole privilegio di chi la prigione può permettersi di scegliersela. Ma ci sono anche gli istanti di consolazione: una natura anch’essa ripetitiva, come le onde del mare che Lucy contempla, ma proprio per questo rassicurante; una chiacchierata dietro la mascherina, un abbraccio proibito e insperato con una figlia lontana, un incontro dal passato, e un percorso rovesciato di separazione in casa per due vecchi coniugi e amici e amanti chiamati a saggiare la trama della loro comune tela nel modo piú brutale. Lo stesso di cui tutti noi ancora portiamo le cicatrici.
(Einaudi; Supercoralli)

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Mi chiamo Lucy Barton – Elizabeth Strout

Incipit Mi chiamo Lucy Barton - Elisabeth Strout

Incipit Mi chiamo Lucy Barton

Ci fu un tempo, ormai molti anni fa, in cui dovetti trascorrere quasi nove settimane in ospedale. Succedeva a New York e la notte, dal mio letto, vedevo davanti a me il grattacielo Chrysler con la sua scintillante geometria di luci. Il giorno spegneva la bellezza dell’edificio che, a poco a poco, ridiventava solo l’ennesima immane architettura stagliata contro il cielo azzurro e, come le altre, remota, silenziosa, altera. Era il mese di maggio e poi di giugno e ricordo che me ne andavo alla finestra a guardare il marciapiede sotto di me e a osservare le donne giovani – cioè della mia età – in abiti leggeri, a spasso nella pausa pranzo; le vedevo chiacchierare muovendo la testa, mentre le loro camicette tremavano riempiendosi di brezza. E pensavo che mai e poi mai, una volta dimessa dall’ospedale, avrei potuto andare a passeggio senza ringraziare il cielo di essere di nuovo una di quelle donne, e per molti anni lo feci: mi rivedevo mentalmente alla finestra dell’ospedale e mi sentivo felice di calcare un marciapiede.

Incipit tratto da:
Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Traduzione: Susanna Basso
Titolo originale: My Name is Lucy Barton
Casa editrice: Einaudi
Illustrazione copertina: Giordano Poloni

Libri di Elizabeth Strout

Mi chiamo Lucy Barton di Elisabeth Strout

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Incipit My Name is Lucy Barton

There was a time, and it was many years ago now, when I had to stay in a hospital for almost nine weeks. This was in New York City, and at night a view of the Chrysler Building, with its geometric brilliance of lights, was directly visible from my bed. During the day, the building’s beauty receded, and gradually it became simply one more large structure against a blue sky, and all the city’s buildings seemed remote, silent, far away. It was May, and then June, and I remember how I would stand and look out the window at the sidewalk below and watch the young women — my age — in their spring clothes, out on their lunch breaks; I could see their heads moving in conversation, their blouses rippling in the breeze. I thought how when I got out of the hospital I would never again walk down the sidewalk without giving thanks for being one of those people, and for many years I did that — I would remember the view from the hospital window and be glad for the sidewalk I was walking on.

Incipit tratto da:
Title: My Name is Lucy Barton
Author: Elizabeth Strout
Language: English

Quarta di copertina / Trama

In una stanza d’ospedale nel cuore di Manhattan, davanti allo scintillio del grattacielo Chrysler che si staglia oltre la finestra, per cinque giorni e cinque notti due donne parlano con intensità. Non si vedono da molti anni, ma il flusso delle parole sembra poter cancellare il tempo e coprire l’assordante rumore del non detto. In quella stanza d’ospedale, per cinque giorni e cinque notti, le due donne non sono altro che la cosa piú antica e pericolosa e struggente: una madre e una figlia che ricordano di amarsi.
Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell’Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, «ciao, Bestiolina», perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d’ospedale. Lí la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l’altra storia. Quella di un’infanzia brutale e solitaria, di una miseria umiliante, di una memoria tanto piú dolorosa perché non condivisa. Oltre la finestra, le luci intermittenti del grattacielo Chrysler, emblema di grandi aspirazioni nella Grande Mela degli anni Ottanta, insieme all’alternarsi del sonno e della veglia e all’avvicendarsi delle infermiere dal nomignolo fiabesco, scandiscono il passare di un tempo altrimenti immobile. Ma il tempo passa. L’isola d’intimità di quei cinque giorni d’ospedale non si ripeterà nella vita di madre e figlia. Molti anni piú tardi la donna è una scrittrice di fama. Ha scelto la parola al silenzio, dopotutto, perché è cosí che può raccontare anche quella storia d’amore. Un amore invalido, mezzo afasico, ma amore senza dubbio. Dalla sua insegnante di scrittura ha appreso che «ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola». La donna si chiama Lucy Barton, e questa è la sua.
(Ed. Einaudi; Supercoralli)

I ragazzi Burgess – Elizabeth Strout

Incipit I ragazzi Burgess – Elizabeth Strout

Incipit I ragazzi Burgess

In un ventilato pomeriggio di ottobre nel quartiere di Park Slope a Brooklyn, New York, Helen Farber Burgess stava preparando i bagagli per le vacanze. Una grande valigia azzurra giaceva aperta sul letto e i vestiti scelti dal marito la sera prima erano ripiegati e impilati sulla chaise longue lì accanto. Il sole continuava a baluginare nella stanza, filtrando tra le nuvole in perenne movimento, facendo scintillare i pomelli della testiera del letto e accentuando l’azzurro della valigia. Helen camminava avanti e indietro tra lo spogliatoio (specchi enormi, carta da parati di crine di cavallo bianca, infissi neri attorno alle alte finestre) e la camera da letto, le cui porte finestre in quel momento erano chiuse, ma che quando faceva più caldo si aprivano su una veranda che dava sul giardino. Stava sperimentando quella sorta di paralisi mentale che l’assaliva ogni volta che preparava i bagagli per un viaggio, così l’improvviso squillo del telefono le diede sollievo. Quando lesse NUMERO PRIVATO sul display capì che si trattava o della moglie di un collega del marito (che lavorava in un prestigioso studio legale, i cui soci erano avvocati famosi), oppure di suo cognato Bob, il cui numero non compariva sull’elenco da anni, ma che non era affatto famoso e non lo sarebbe mai stato.

Incipit tratto da:
Titolo: I ragazzi Burgess
Autrice: Elizabeth Strout
Traduzione: Silvia Castoldi
Titolo originale: The Burgess Boys
Casa editrice: Fazi
Qui è possibile leggere le prime pagine di I ragazzi Burgess

I ragazzi Burgess - Elizabeth Strout

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Incipit The Burgess Boys

On a breezy October afternoon in the Park Slope neighborhood of Brooklyn, New York, Helen Farber Burgess was packing for vacation. A big blue suitcase lay open on the bed, and clothes her husband had chosen the night before were folded and stacked on the lounge chair nearby. Sunlight kept springing into the room from the shifting clouds outside, making the brass knobs on the bed shine brightly and the suitcase become very blue. Helen was walking back and forth between the dressing room—­with its enormous mirrors and white horsehair wallpaper, the dark woodwork around the long window—­walking between that and the bedroom, which had French doors that were closed right now, but in warmer weather opened onto a deck that looked out over the garden. Helen was experiencing a kind of mental paralysis that occurred when she packed for a trip, so the abrupt ringing of the telephone brought relief. When she saw the word private, she knew it was either the wife of one of her husband’s law partners—­they were a prestigious firm of famous lawyers—­or else her brother-­in-­law, Bob, who’d had an unlisted number for years but was not, and never would be, famous at all.

Incipit tratto da:
Title: The Burgess Boys
Author: Elizabeth Strout
Language: English

Quarta di copertina / Trama

A cinque anni di distanza dal grande successo di Olive Kitteridge, Premio Pulitzer 2009, Elizabeth Strout ci regala un grande romanzo corale sull’essere fratelli e sull’inesorabile richiamo della famiglia e delle radici.
I ragazzi Burgess, come vengono chiamati Jim, Bob e Susan, sono nati a Shirley Falls, nel Maine, e sono cresciuti in una piccola casa gialla in cima a una collina, in un angolo di continente appartato. Da adulti si sono allontanati, ognuno a scacciare il ricordo di un antico dramma familiare mai spento. Lassù è rimasta solo Susan, mentre gli altri due vivono a Brooklyn, New York. Nei Burgess si possono scorgere tre anime distinte e tanto diverse che è quasi impensabile immaginarli nella stessa foto di famiglia. Eppure, quando inizia questa storia, Susan chiama e chiede aiuto proprio a Bob e Jim: suo figlio, loro nipote, è nei guai. E allora non solo i tre fratelli sono costretti a riavvicinarsi, a dividere la preoccupazione e a tentare di ricomporre un trauma che alimenta ogni minima increspatura della loro intimità, ma sono anche travolti da una rivoluzione privata che implica, per tutti, il progetto di una nuova vita.
L’ultimo romanzo di Elizabeth Strout è un’istantanea scattata nel momento esatto in cui le fragilità affettive escono allo scoperto mostrando tutta la complessità dei legami indissolubili. La sottile accortezza narrativa, che si manifesta in dettagli minuti quanto necessari, riesce a illuminare i più esili movimenti dell’animo e a scandagliare l’oscillazione perpetua della nostra emotività. Sono questi elementi a fare de I ragazzi Burgess un grande romanzo sull’essere fratelli e sull’inesorabile richiamo della famiglia. E confermano Elizabeth Strout come una delle più importanti voci della letteratura americana contemporanea.
(Ed. Fazi)