Caro Michele – Natalia Ginzburg

Incipit Caro Michele – Natalia Ginzburg

Incipit Caro Michele

Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa nuova. Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatre anni. La casa era in aperta campagna. In distanza si vedeva il paese, situato su una collinetta. Il paese era a due chilometri. La città era a quindici chilometri. Essa abitava da dieci giorni in quella casa. Infilò una vestaglia di velo color tabacco. Cacciò i piedi lunghi e magri in un paio di pantofole color tabacco, slabbrate, con un bordo di pelo bianco molto frusto e sudicio. Scese in cucina e si fece una tazza di orzo Bimbo, e ci inzuppò diversi biscotti. Sul tavolo c’erano delle bucce di mela e le radunò in un giornale destinandole a dei conigli, che non aveva ancora ma aspettava perché glieli aveva promessi il lattaio. Poi andò nel soggiorno e spalancò le imposte. Nello specchio che era dietro il divano salutò e contemplò la sua alta persona, i suoi corti e ondulati capelli colore del rame, la testa piccola e il collo lungo e forte, gli occhi verdi, larghi e tristi. Poi sedette alla scrivania e scrisse una lettera al suo unico figlio maschio.

Incipit tratto da:
Titolo: Caro Michele
Autrice: Natalia Ginzburg
Casa editrice: Einaudi
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Caro Michele – Natalia Ginzburg

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Quarta di copertina / Trama

Chiediamoci a quale specie femminile appartiene Natalia Ginzburg. Inutile cercare vicino a noi. Bisogna risalire indietro nel tempo, lavorare di fantasia, immaginarsi un remoto va e vieni di gente nomade nel deserto, quando non erano rari gli esemplari di donne dai nomi antichi come Sara, esotici come Abigail: donne tutte d’un pezzo, il passo abituato alle lunghe marce, il busto eretto sotto il carico di masserizie e di figli. Guerre, calamità, carestie si avvicendavano senza scuotere il fuoco, cucinare, mangiare, partorire, prendere sonno.
Si è talvolta rimproverato alla Ginzburg di raccontare storie di famiglie borghesi. Ma le famiglie della Ginzburg non sono famiglie. Sono tribù. Dieci anni fa, in Lessico famigliare, ci era stata raccontata la vita di una comunità, i Levi, dispersa da un flagello storico. Grazie a una sola parola, a una sola frase i membri di quella comunità avrebbero potuto riconoscersi “nel buio di una grotta, in mezzo a milioni di persone”. Oggi la Ginzburg ci racconta la storia di una famiglia dispersa e divisa senza alcuna ragione. Simili a schegge, a frammenti scagliati nel vuoto da un’esplosione così silenziosa da sembrare piuttosto un’inspiegabile malattia, i personaggi di Caro Michele non sanno e non possono più riconoscersi. Non è che ciascuno riesce a malapena a trovare un linguaggio per sé, come se fosse finito il tempo di scambiarsidei messaggi, passata per sempre la voglia di avere interlocutori. Ciascuno parla di sé o non parla affatto. E chi parla, lo fa con angoscia febbrile, o con lucida ma depressa chiarezza. Ciascuno vive del proprio inutile, ingombrante, faticoso egoismo. Ciascuno vanta ragioni taciute. Ma nessuna di queste ragioni, nessuno di questi egoismi ha uno scopo. Tutte le vite che s’intrecciano in questo romanzo sono fatte di passi sbagliati. Ma a nessuno di questi sbagli si sarebbe potuta opporre una scelta giusta, e nessuno di questi passi avrebbe potuto essere indirizzato verso un traguardo migliore.
Dubbi, angosce e inquietudine della Ginzburg avevano trovato, finora, una difesa nello humour. Oggi lo humour non le basta più. Uscito da una crisi che sembra scuotere ataviche persuasioni, folto di personaggi tutti egualmente orfani, Caro Michele è un romanzo attraversato da un crescente, misterioso senso di freddo, e non certo perchè la scena si apre sopra un paesaggio nevoso e invernale. C’è nel romanzo una sottile simmetria. La vicenda comincia in dicembre e la narrazione si chiude nel giro di un anno. Ebbene, quanto più si avvicinano la primavera e l’estate, tanto più i personaggi di Caro Michele si congedano dal ricordo di un tepore lontano, vittime coscienti di un progressivo assideramento. Le loro labbra si sbiancano, la loro memoria appassisce e si annebbia. Qualche volta, essi ci potranno apparire inchiodati a una condizione borghese e incapaci di uscirne, come certi personaggi di Cechov, di un dramma non meno patetico che ridevole. Ma sappiamo anche che solo nel disfacimento delle loro certezze, nelle loro esistenza senza via di uscita, risiede il futuro degli altri, la liberazione di quelli che seguiranno.
Cesare Garboli
(Ed. Mondadori;

Da questo romanzo il film Caro Micheleper la regia di Mario Monicelli (1976)

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Lessico famigliare – Natalia Ginzburg

Incipit Lessico famigliare – Natalia Ginzburg

Incipit Lessico famigliare

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d’hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via.
Aveva, dell’Inghilterra, la piú alta stima. Trovava che era, nel mondo, il piú grande esempio di civiltà.
Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, «un sempio». – M’è sembrato un bel sempio, – diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai «sempi» c’erano i «negri». «Un negro» era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere.
Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita.

Incipit tratto da:
Titolo: Lessico famigliare
Autrice: Natalia Ginzburg
Casa editrice: Einaudi
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Lessico famigliare - Natalia Ginzburg

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Quarta di copertina / Trama

Una famiglia è anche – forse soprattutto – fatta di voci che s’intrecciano attraverso la tavola a pranzo e a cena, di rimbrotti, di scherzi, di battute slegate, di frasi che si ripetono a ogni data occasione; è un linguaggio comprensibile solo a chi lo pratica, una rete di ricordi e richiami.
Natalia Ginzburg, partita per rievocare il «lessico» della sua famiglia, gli intercalari dei suoi genitori e dei suoi fratelli, si è accorta presto che ciò che stava inseguendo era il quid misterioso che caratterizza e lega appunto quest’entità che chiamiamo «famiglia», il senso e il ritmo che ci accompagna nelle nostre vite anche quando ci siamo staccati dal tetto e dal desco della nostra fanciullezza.
Scrittrice di rapporti e cadenze familiari nei suoi romanzi (ricordiamo Tutti i nostri ieri, Valentìno, Le voci della sera) Natalia Ginzburg qui ha abbandonato gli intrecci immaginari o trasfigurati per l’autobiografia diretta; e s’è trovata a muoversi con un’inaspettata libertà, un’inesauribilità, un allegro che rappresentano la sua riuscita più felice (già preannunciata da alcuni capitoli delle Piccole virtù). La capacità di registrazione visiva e auditiva che altre volte era potuta apparire acuta fino alla spietatezza, si rivela ora come un’infinita partecipazione d’affetto per le persone che esistono e che sono esistite.
E il libro vale per il lettore non solo come riscoperta di che cosa vuoi dire la famiglia, ma come scoperta d’una famiglia d’eccezione. Eccezionali sono infatti le personalità dei componenti (il padre scienziato perpetuamente burbero e la madre perpetuamente gaia dominano il libro con la loro irresistibile vitalità), l’ambiente che si muove intorno a loro (la Torino intellettuale e antifascista tra le due guerre), gli avvenimenti della storia italiana (a cominciare dalla fuga di Turati «grande come un orso», nascosto in casa loro) che alla storia familiare sono mescolati.
La Ginzburg stavolta ha voluto evitare ogni invenzione come ogni indeterminatezza: i personaggi vi sono designati col nome e cognome della loro vera identità; e se si facesse un «indice dei nomi» del libro vi si vedrebbero allineate molte delle figure più famose della vita politica, sociale, letteraria, universitaria, con lo stesso rilievo dei più oscuri parenti e conoscenti, nella prospettiva che loro tocca non nella Storia, ma nelle nostre storie private. Il libro acquista così anche il valore d’una cronaca dell’antifascismo vista con gli occhi d’una bambina – e poi d’una moglie e d’una madre -, per cui gli avvenimenti della cospirazione non si differenziano da quelli della quotidiana vita casalinga e dei rapporti d’amicizia.
Miracolo del libro, passioni e persecuzioni e sangue e tragedie non riescono a incrinare la calda serenità della pagina; mai una parola d’avversione viene pronunciata; eppure nulla viene ingentilito o addolcito; amore e dolore non potrebbero essere espressi meglio che dal riserbo che li tace.
Un libro unico, dunque, affollato come un gruppo fotografico che, vecchio appena di alcuni anni, già ci dà l’impressione del tempo trascorso nei visi curiosamente giovanili in cui riconosciamo fisionomie note: un ritratto di famiglia dell’Italia migliore.
(Ed.Einaudi; Prima Edizione 1963)

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Le piccole virtú – Natalia Ginzburg

Incipit Le piccole virtú – Natalia Ginzburg

Incipit Le piccole virtù

Deus nobis haec otia fecit.
In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno. La primavera è nevosa e ventosa come l’inverno e l’autunno è caldo e limpido come l’estate. L’estate comincia in giugno e finisce in novembre. I lunghi giorni soleggiati sulle colline basse e riarse, la gialla polvere della strada e la dissenteria dei bambini, finiscono e comincia l’inverno. La gente allora cessa di vivere per le strade: i ragazzi scalzi scompaiono dalle scalinate della chiesa. Nel paese di cui parlo, quasi tutti gli uomini scomparivano dopo gli ultimi raccolti: andavano a lavorare a Terni, a Sulmona, a Roma. Quello era un paese di muratori: e alcune case erano costruite con grazia, avevano terrazze e colonnine come piccole ville, e stupiva di trovarci, all’entrare, grandi cucine buie coi prosciutti appesi e vaste camere squallide e vuote. Nelle cucine il fuoco era acceso e c’erano varie specie di fuochi, c’erano grandi fuochi con ceppi di quercia, fuochi di frasche e foglie, fuochi di sterpi raccattati ad uno ad uno per via.
Era facile individuare i poveri e i ricchi, guardando il fuoco acceso, meglio di quel che si potesse fare guardando le case e la gente, i vestiti e le scarpe, che in tutti su per giù erano uguali.
(Inverno in Abruzzo)

Incipit tratto da:
Titolo: Le piccole virtú
Autrice: Natalia Ginzburg
Casa editrice: Einaudi
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Le piccole virtù - Natalia Ginzburg

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Quarta di copertina / Trama

I lettori conoscono Natalia Ginzburg nei suoi romanzi come una scrittrice tutta fatti, tutte cose, tutta gesti e voci e cadenze;e anche in questo libro di memorie e di riflessioni essa resta più che mai fedele a se stessa.
In ogni pagina c’è il suo tipico modo d’essere donna; un modo spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco, in mezzo ai dolori e alle gioie della vita. Forse mai una scrittrice ha saputo essere così femminile – ragazza, moglie, madre – in un senso così opposto a quello che s’intende di solito per «letteratura femminile» cioè dell’abbandono lirico ed emotivo.
Tra i capitoli del volume si ricorda Ritratto di un amico,certo la più bella cosa che sia stata scritta sull’uomo Cesare Pavese. E le pagine scritte subito dopo la guerra, che riportano con una forza più che mai struggente il senso dell’esperienza d’anni terribili (e sanno pur farlo, serbando, come Le scarpe rotte, un quasi miracoloso senso del comico). Poi, le prove (come Silenzio e Le piccole virtù)d’una Natalia Ginzburg moralista, dove una partecipazione acuta ai mali del secolo sembra nascere dalla matrice d’un calore familiare. E soprattutto, perfetto capitolo d’una autobiografia in chiave obiettiva, Lui e io, in cui la contrapposizione dei caratteri si trasforma, da spunto di commedia, nel più affettuoso poema della vita coniugale.
(Ed. Einaudi; Nuovi Coralli, 21)

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