Milano è una selva oscura – Laura Pariani

La sveglia nel dormitorio di Bande Nere è il momento peggiore

Incipit Milano è una selva oscura

La sveglia nel dormitorio di Bande Nere è il momento peggiore. Non tanto per il gelo, ché in inverno non si può pretendere altro, quanto per gli odori sconci di tanti corpi ammucchiati. Tituffa titoffa, chi l’è che l’ha mollaa sta loffa? Un brivido. Colpa dell’atmosfera di malora che avvolge i corpi distesi su queste brande. Ché qui vengono a dormire solo gli strapelati lunatici, i randagi per affitti non onorati: come il Tiramolla che l’è sempre ciocco, il Legorín che gli manca il respiro a far dieci scalini, il Pètt-de-suora malato di muròid, il Verza che ci ha la faccia gialda per il fegato marcio. Tutti corpi vecchi che mandano cattivo odore e perdono sostanza. Derelitti di una povertà in caduta libera, fuori da ogni quadro statistico, compilato da ben pasciuti funzionari Istat… Tramestío: la squadra dei primi pisciatori già corre verso il bagno. I disgraziati visceri dei vecchi, pensa il Dante: la polvere di cui tutti siamo fatti; ché solo guardando i corpi altrui si constata la decadenza del proprio… Apre gli occhi. O fiolítt del Signôr mòrt, levee sü che ‘l sol l’è vòlt…

Incipit tratto da:
Titolo: Milano è una selva oscura
Autrice: Laura Pariani
Casa editrice: Einaudi

Libri di Laura Pariani

Copertina di Milano è una selva oscura di Laura Pariani

Quarta di copertina / Trama

«Che mi domando e dico: cos’ho mai fatto nella mia vita, oltre a scappare? Il Dante sorride tra sé mentre prova a rispondere… Ché se la vita la fosse un catalogo, potrebbe scriverci: andato in guerra, dato lezioni, emigrato, sposato, diventato padre, ammalato, confinato, letto libri, scritto quatter patanflànn di poesie, viaggiato di notte su un camion per un sacco di riso e una tolla di latte condensato da portare alla Milena, urlato per i bombardamenti, gridato d’allegria nel sole di aprile, venduto libri, perduto il lavoro, finito sotto processo, ben pistaa in la pirotta, camminato… Insomma, una lista lunga, e non sempre di faccende volgari».
Ma di tutto questo nella borsa «degli Avanzi» che porta a tracolla restano solo poveri «barlafüs», destinati a finire insieme al Dante «in pasto ai vermi – ipotesi umile – o ai corvi – ipotesi romantica – o agli avvoltoi – ipotesi eroica – o ai piccioni – ipotesi terratèrra».
Il Dante si sente diverso dalle altre lingére, che per paura e vergogna non amano mostrarsi e si rintanano nei loro cantucci. A fargli mantenere la testa alta è la cultura di cui nella sua famiglia adottiva si è nutrito fin da piccolo: non ha mai chiesto l’elemosina, e non frequenta neppure il refettorio della San Vincenzo; da quelle «dame del biscottino» «non ci va non ci va non ci va», perché dovrebbe in cambio fare il segno della croce. «Mangià e bev in santa libertà, diga chi v¿ur, l’è on gust cont i barbìs», scriveva il Porta. Parole sante, secondo il Dante, ché anche il primo dei poeti milanesi «l’era della razza dei poerìtt ma gnücch».
Lui preferisce accettare quello che la gente gli offre in cambio di un calembour, di una storia ben raccontata o della recita di una poesia. E sa star bene con gli amici, con cui spartire le cicche e un po’ di grappa. Intanto rimescola tra sé e sé riflessioni sul mondo, filastrocche, citazioni, frammenti di ricordi o forse di sogni: «memorie che si somministra da solo col gusto di chi fa un solitario…»
Fino a quando il suo destino non si compie nel «punto preciso in cui poggiare l’orecchio per terra di modo da sentire battere il polso della città»
(Ed. Einaudi; SuperCoralli)

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