Incipit Locus desperatus
Qui è possibile leggere le prime pagine di Locus desperatusQuattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di Al Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi… Contemplai qualche altra beltà, indugiando del guardo come a sussumerla nelle avide entragne, e questa, e quest’altra, e quelle che non vedevo ma sapevo esserci in giro, nelle altre stanze, o al chiuso; poi, quasi strappandomi a me stesso, spensi la luce e uscii. Girai la chiave secondo l’immutabile rito, quattro mandate a destra, una indietro, un’altra a destra, poi tre conati di spinta a saggiare l’avvenuta chiusura, per un totale di nove operazioni: undici con l’inserimento e il disinserimento.
Incipit tratto da:
Potevo dunque andare, ma in quella, alzando lo sguardo, vidi una cosa strana. Sulla porta, subito sopra lo spioncino, un segno fatto con il gesso: una croce, cm. 10 x 10 all’incirca. Non una X: una croce, ciò che rendeva quel segno, già di per sé inquietante nel suo abuso vigliacco, ancora piú spiacevole. Non infatti un segno, ma IL segno: e che segno! Ancorché anacronistico, se riferito al testamento antico… Cercai di ricordare il passo preciso, i due angeli segnavano le case che dovevano essere distrutte o quelle che sarebbero state risparmiate? La Bibbia del Diodati, dovevo controllare, ma intanto non potevo sfuggire alla domanda che mi rintronava in capo siccome tempesta: ero un giusto, io? Potevo sperare di essere considerato tale? Ne dubitavo, e comunque un controllo: salii e scesi le scale per esaminare le altre porte, su cui niente, nessun tipo di segno. Cosí ero io, il prescelto, ma prescelto per cosa? Non volevo saperlo, reinfilai la chiave nella toppa e aprii senza rispettare il rituale, corsi in cucina, inumidii una spugna e tornai fuori, a cancellare lo stigma.
Titolo: Locus desperatus
Autore: Michele Mari
Casa editrice: Einaudi
Quarta di copertina / Trama
In filologia, il locus desperatus indica un passo testuale corrotto e insanabile, per il quale il filologo è costretto a gettare la spugna contrassegnandolo con la cosiddetta «croce della disperazione». E a dare l’avvio a questa storia è proprio una piccola croce, disegnata nottetempo con un gessetto su una porta. Un mattino, uscendo dal suo appartamento, il protagonista nota quel segno appena sopra lo spioncino dell’ingresso di casa: chi può essere stato a farlo, e che significato ha? L’uomo cancella la croce, ma il giorno seguente, e poi quello ancora successivo, il segno ricompare implacabile. Il mistero s’infittisce quando al residente viene imposto uno scambio: qualcuno prenderà il suo posto, e lui dovrà giocoforza trasferirsi. Ma cambiando abitazione sarà costretto a cambiare anche identità: tutte le cose dentro l’appartamento, infatti, dovranno a loro volta scegliere. O fuggiranno insieme a lui, oppure passeranno a un nuovo proprietario – macchiandosi di alto tradimento. Perché ogni oggetto amato ha un’anima, e dunque una sua volontà. Da sempre le case, nella storia della letteratura cosí come nella vita, sono il luogo dove gli avvenimenti piú banali si mescolano a quelli fatidici. L’abitazione al centro di Locus desperatus, però, assomiglia alla Hill House immaginata da Shirley Jackson, o alla Casa Usher di Poe: un’entità senziente, con un suo carattere ben preciso. Un luogo dove l’inconscio di chi ci abita, dopo una lunga frequentazione, è divenuto tutt’uno con i libri, le stampe, gli oggetti e i ricordi d’infanzia. E chi meglio di Michele Mari poteva raccontare lo struggimento e le ossessioni per i feticci accumulati nel corso di un’esistenza, ingaggiando un duello con la propria memoria affettiva? L’autore di Verderame e di Leggenda privata ci consegna una stramba discesa agli inferi e insieme una spietata tassonomia dei ricordi. Un romanzo tormentato e divertente sul senso ultimo che diamo agli oggetti: «Senza le mie cose io non sarei stato piú io, e senza di me loro non sarebbero state piú loro».
(Einaudi)
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