Locus desperatus – Michele Mari

Incipit Locus desperatus - Michele Mari

Incipit Locus desperatus

Quattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di Al Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi… Contemplai qualche altra beltà, indugiando del guardo come a sussumerla nelle avide entragne, e questa, e quest’altra, e quelle che non vedevo ma sapevo esserci in giro, nelle altre stanze, o al chiuso; poi, quasi strappandomi a me stesso, spensi la luce e uscii. Girai la chiave secondo l’immutabile rito, quattro mandate a destra, una indietro, un’altra a destra, poi tre conati di spinta a saggiare l’avvenuta chiusura, per un totale di nove operazioni: undici con l’inserimento e il disinserimento.
Potevo dunque andare, ma in quella, alzando lo sguardo, vidi una cosa strana. Sulla porta, subito sopra lo spioncino, un segno fatto con il gesso: una croce, cm. 10 x 10 all’incirca. Non una X: una croce, ciò che rendeva quel segno, già di per sé inquietante nel suo abuso vigliacco, ancora piú spiacevole. Non infatti un segno, ma IL segno: e che segno! Ancorché anacronistico, se riferito al testamento antico… Cercai di ricordare il passo preciso, i due angeli segnavano le case che dovevano essere distrutte o quelle che sarebbero state risparmiate? La Bibbia del Diodati, dovevo controllare, ma intanto non potevo sfuggire alla domanda che mi rintronava in capo siccome tempesta: ero un giusto, io? Potevo sperare di essere considerato tale? Ne dubitavo, e comunque un controllo: salii e scesi le scale per esaminare le altre porte, su cui niente, nessun tipo di segno. Cosí ero io, il prescelto, ma prescelto per cosa? Non volevo saperlo, reinfilai la chiave nella toppa e aprii senza rispettare il rituale, corsi in cucina, inumidii una spugna e tornai fuori, a cancellare lo stigma.

Incipit tratto da:
Titolo: Locus desperatus
Autore: Michele Mari
Casa editrice: Einaudi
Qui è possibile leggere le prime pagine di Locus desperatus

Locus desperatus - Michele Mari

Quarta di copertina / Trama

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In filologia, il locus desperatus indica un passo testuale corrotto e insanabile, per il quale il filologo è costretto a gettare la spugna contrassegnandolo con la cosiddetta «croce della disperazione». E a dare l’avvio a questa storia è proprio una piccola croce, disegnata nottetempo con un gessetto su una porta. Un mattino, uscendo dal suo appartamento, il protagonista nota quel segno appena sopra lo spioncino dell’ingresso di casa: chi può essere stato a farlo, e che significato ha? L’uomo cancella la croce, ma il giorno seguente, e poi quello ancora successivo, il segno ricompare implacabile. Il mistero s’infittisce quando al residente viene imposto uno scambio: qualcuno prenderà il suo posto, e lui dovrà giocoforza trasferirsi. Ma cambiando abitazione sarà costretto a cambiare anche identità: tutte le cose dentro l’appartamento, infatti, dovranno a loro volta scegliere. O fuggiranno insieme a lui, oppure passeranno a un nuovo proprietario – macchiandosi di alto tradimento. Perché ogni oggetto amato ha un’anima, e dunque una sua volontà. Da sempre le case, nella storia della letteratura cosí come nella vita, sono il luogo dove gli avvenimenti piú banali si mescolano a quelli fatidici. L’abitazione al centro di Locus desperatus, però, assomiglia alla Hill House immaginata da Shirley Jackson, o alla Casa Usher di Poe: un’entità senziente, con un suo carattere ben preciso. Un luogo dove l’inconscio di chi ci abita, dopo una lunga frequentazione, è divenuto tutt’uno con i libri, le stampe, gli oggetti e i ricordi d’infanzia. E chi meglio di Michele Mari poteva raccontare lo struggimento e le ossessioni per i feticci accumulati nel corso di un’esistenza, ingaggiando un duello con la propria memoria affettiva? L’autore di Verderame e di Leggenda privata ci consegna una stramba discesa agli inferi e insieme una spietata tassonomia dei ricordi. Un romanzo tormentato e divertente sul senso ultimo che diamo agli oggetti: «Senza le mie cose io non sarei stato piú io, e senza di me loro non sarebbero state piú loro».
(Einaudi)

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Le maestose rovine di Sferopoli – Michele Mari

Incipit Le maestose rovine di Sferopoli

[…] Proseguendo sulla SP 921 si arriva, dopo una serie di tornanti, al passo della Furca (belvedere al km 183), dal quale si scende dolcemente nella valle del Bramone, celebre per i suoi uliveti e le sue acque termali. Meritano una sosta i borghi di Fargia (cappella del Redentore, con affresco del XIII sec.; collegiata di S. Firmino), Mendola (antichi lavatoi e Pozzo Massimo) e Roccella, dove al civico 10 di via Garibaldi si può visitare la casa natale di Terenzio Santapaola (ingresso a pagamento lun.-ven. 9.00-12.00 e 15.00-18.00, sab. 9.00-12.00). Dopo 8 km si prende la Strada Consortile 34 (tratti sterrati), che attraverso faggeti e querceti conduce a Pirismano, un tempo centro manifatturiero e commerciale della civiltà subbiotica e oggi ridente cittadina termale, caratterizzata dai tipici edifici “a falcone”. Subito prima dell’abitato si possono ammirare le cupe rovine del castello di Grazza, dove il monaco Urgulone praticava l’arte di cristallizzare i cadaveri: del suo laboratorio rimane solo la parte ipogea (visita sconsigliata ai deboli di cuore; informazioni in loco). In centro, allineati lungo il corso del Faruto, il Teatro Comunale (facciata neoclassica di A. Piva), il Grand Hôtel delle Acque e la Casa della Sgraglia, dove fino al secolo scorso si conciavano le pelli secondo l’antica tecnica della sgragliatura. Manifestazioni: infiorata di S. Costanza (20 maggio); palio dei terzieri (prima domenica d’agosto); sagra della castagna (secondo fine settimana di ottobre). Gastronomia: piatto tradizionale del Pirismanese è la regagliata, crostone farcito di interiora di ovino; fra i dolci locali il pangreve, con uvette, pinoli ed estratto di mortilla. Inutilmente cercherete una pizza. Impossibile posteggiare: vi innervosirete, verrete multati, litigherete. Litigherete con gli altri, con i vostri compagni di viaggio, con voi stessi. Vi chiederete perché Santapaola, perché Piva. Vi rammaricherete di non essere scesi nei tenebricosi sotterranei del monaco Urgulone, che soli avrebbero potuto dare un senso al vostro viaggio.
(Strada Provinciale 921)

Incipit tratto da:
Titolo: Le maestose rovine di Sferopoli
Autore: Michele Mari
In sovracoperta: Illustrazione tratta dal libro di Barthélemy Faujas de Saint-Fond, Minéralogie des volcans, 1784
Casa editrice: Einaudi

Libri di Michele Mari

Le maestose rovine di Sferopoli di Michele Mari

Quarta di copertina / Trama

Ogni ossessione a Sferopoli è già stata catalogata, qualsiasi mito o superstizione trova conferma, i sogni sono moneta corrente, la letteratura è l’unica divinità. Nella geografia immaginaria e nella filologia fantastica di questo libro può capitare che il carteggio fra una padrona di casa e un inquilino precipiti in un contrappasso metafisico, e che al calar delle tenebre i teschi si raccolgano intorno a quello fra loro piú loquace; che il tema assegnato da un maestro elementare susciti un maleficio, o che un esame universitario sia l’occasione per uno studente impreparato di esibirsi in uno sfoggio linguistico ultraterreno. A furia di passeggiare rimirando ogni angolo di questa dimensione, al turista potrebbe venire fame: è allora che scoprirà quanto da bambino Mozart andasse pazzo per il gorgonzola, e solo dopo aver messo in tasca una ricetta per la coda alla vaccinara potrà proseguire la visita. Non mancheranno le dispute: se si è fortunati si incontreranno gli otto rabbini piú potenti del mondo pronti a sfidarsi in una gara di golem, o due parroci rivali disposti a tutto pur di raccogliere i funghi migliori. Dopo la «finzione autobiografica» di Leggenda privata, Michele Mari torna a una delle forme piú congeniali: il racconto. Con la fiducia affabulatoria di chi, esplorando le infinite possibilità del genere, sa di poter sorprendere – oltre i suoi lettori – prima di tutto se stesso.

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Leggenda privata – Michele Mari

Incipit Leggenda privata

L’Accademia mi ha convocato nella Sala del Camino, alla mezzanotte di ieri. C’erano tutti, credo, ma era troppo buio per vederli. Ha parlato solo Quello che Gorgoglia, e come temevo ha nuovamente sollecitato la mia autobiografia. Secondo loro sono cosí ambiguo e contorto che prima di decidere devono sapere qual è la mia ultimativa menzogna: «isshgioman’zo con chui ti chonshgedi», ha aggiunto Quello che Biascica. Prima di decidere. Il bello è che solo una settimana prima mi era stata chiesta la stessa cosa dall’altra Accademia, quella dei Ciechi della Cantina: quando ho domandato al loro emissario come avrebbero potuto leggerla, mi ha detto che hanno già chi gliela leggerà ad alta voce, e che dovrei sapere di chi si tratta. In realtà lo ignoro, ma qualcosa dev’essere trapelato: Quello che Gorgoglia ha infatti precisato che la mia autobiografia dovrà essere diversa da quella che eventualmente sto già preparando. Mi è stato concesso solo di ripetere l’esordio, come cosa conclamata e ampiamente vulgata: essere io nato da un amplesso abominevole.

Incipit tratto da:
Titolo: Leggenda privata
Autore: Michele Mari
Casa editrice: Einaudi

Libri di Michele Mari

Copertine di Leggenda privata di Michele Mari

Quarta di copertina / Trama

«Se la madre non lo difendeva, si formava talvolta nella mente del figlio la delirante intenzione di difenderla lui, come si evince da una fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”».

L’Accademia dei Ciechi ha deliberato: Michele Mari deve scrivere la sua autobiografia. O, come gli ha intimato Quello che Gorgoglia, «isshgioman’zo con cui ti chonshgedi». Se hai avuto un padre il cui carattere si colloca all’intersezione di Mosè con John Huston, e una madre costretta a darti il bacino della buonanotte di nascosto, allora l’infanzia che hai vissuto non poteva definirsi altro che «sanguinosa». Poi arriva l’adolescenza, e fra un viscido bollito e un Mottarello, in trattoria, avviene l’incontro fatale: una cameriera volgarotta e senza nome che accende le fantasie erotiche del futuro autore delle Cento poesie d’amore a Ladyhawke… Ma è davvero una ragazza o un golem manovrato da qualche Entità? Assieme a lei, in una «leggenda privata» documentata da straordinarie fotografie, la famiglia dell’autore e il suo originalissimo lessico. E poi la scuola, la cultura a Milano negli anni Sessanta e Settanta, e alcune illustri comparse come Dino Buzzati, Walter Bonatti, Eugenio Montale, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Chiamando a raccolta tutti i suoi fantasmi e tutte le sue ossessioni (fra cui un numero non indifferente di ultracorpi), Michele Mari passa al microscopio i tasselli di un’intera esistenza: la sua. Un romanzo di formazione giocoso e serissimo che è anche un atto di coerenza verso le ragioni più esose della letteratura.
(Ed. Einaudi; Supercoralli)

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